Coaching e Yoga: sinergia di successo

Sinergia di successo

Tra il Coaching e lo Yoga c’e’ una sinergia di successo, che sfida il pensiero piu’ comune. Infatti, menzionati nella stessa frase puo’ sembrare un’insolita scelta di parole, o persino un tentativo contrastante.

Focalizzandosi sull’identificazione di obiettivi specifici, sul puntare a una performance vincente, il coaching – con radici negli Stati Uniti ed nel campo sportivo – e’ una disciplina che di primo acchito avanza sul presupposto di  ottenere obiettivi vincenti e soddisfare grandi aspettative. Lo Yoga – la cui origine come filosofia risale a piu’ di 5,000 anni – e’ inteso e praticato principalmente come una sequenza di movimenti corporei che migliorano la forma fisica e riducono lo stress da una vita veloce e pretenziosa. La prima attività – il Coaching – si concentrerebbe piu’ su ‘un fare per raggiugere attraverso un divenire’, mentre la seconda – lo Yoga – su ‘un fare per essere attraverso un divenire’.

In entrambi i casi, limitarsi a queste iniziali caratteristiche, sebbene parzialmente veritiere, porrebbe un problema di concetto e di approccio. Sia il Coaching che lo Yoga sono discipline rivolte a uno sviluppo personale piu’ intrinseco e profondo. In un certo senso, la meta e’ il pretesto ma e’ il percorso che assume un valore piu’ forte. E Marcel Proust ci illumina dicendo che “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.” 

Trasformazione olistica

Come life coach, consulente ed insegnante di Yoga, vedo l’incredibile opportunità di creare una sinergia tra queste due discipline, creando un percorso che supporti mete verso obiettivi olistici, come una serenita’ interiore inconfutabile, e performance d’eccellenza. 

Per me, l’essenza del percorso e’ una trasformazione profonda e olistica tra corpo, mente e anima, rappresentata dalle nostre azioni e la nostra filosofia di vita. Fondato sull’autenticita’ di chi siamo, questo viaggio crea un equilibrio dinamico,  dove il punto di partenza, la destinazione e il percorso si continuano a rafforzare a vicenda. Unendo metododologie moderne e saggezze orientali, lo sviluppo personale diventa piu’ resiliente, prezioso ed avvincente. Il vero traguardo e’ l’abilita’ di alimentare la nostra intuizione, di potenziare la nostra saggezza, e di ancorare le nostre azioni a un equilibrio piu’ solido ed equiname.

La sinergia tra Coaching e Yoga si basa su contenuti strategici e su pratiche interdisciplinari per il raggiungimento di una vita qualitativamente piu’ alta.

Sviluppo personale piu’ strategico, autentico, profondo, e ricco.

Un esempio interessante di questa sinergia potrebbe essere quello di sostenere e aiutare un nostro cliente che vuole uscire da un periodo di solitudine. Di questa situazione possiamo capirne le cause piu’ dirette ed intraprendere immediatamente nuove strategie come nuovi hobby e nuove frequentazioni. Il percorso di coaching ci farebbe comprendere ciò di cui necessitiamo, come scegliere un’appropriata soluzione basata sui nostri bisogni e desideri, e come mettere in atto un piano efficace nel nostro quotidiano.

Incorporando la  filosofia e la pratica dello Yoga, impariamo che ci si puo’ sentire soli, ma che in profondita’ nel nostro essere non siamo mai soli, che la solitudine puo’ essere smascherata da un equilibrio perfetto dell’essere qui e ora, e da un’apertura alla vita che offre abbondanza. L’assioma fondamentale di questa saggezza orientale e’ che ‘essere in vita e’ pura meraviglia’ a priori; che lo scopo della nostra vita e’ lo sviluppo di noi stessi, e che questo fine ci indirizza ad attuare la nostra vera natura. Questa consapevolezza ci conduce a vivere in modo piu’ sereno, e pertanto ad essere individui piu’ completi. Tale concetto non vuole sminuire la propria esperienza, o ignorare un rilascio emotivo come il periodo di solitudine, ma ci invita, compassionevolmente, ad assumere una visione piu’ ampia e nuova della propria dimensione umana. Si impara a stare da soli e bene, e non sentirsi piu’ soli.

Che fantastico impatto ha, nel nostro percorso, sapere che il nostro aspirante punto d’arrivo e’ un naturale punto di partenza in altre culture? E che importante lezione di vita e’ riconoscere che possiamo abbracciare nuovi saperi e nuove pratiche nel nostro quotidiano grazie a uno spirito curioso, una mente aperta e un corpo forte?

Ecco questa e’ la sinergia di successo del Coaching e dello Yoga, laddove il percorso produce sia esiti di successo che una nuova, ricca filosofia di vita. 

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Come combattere l’abilismo nella relazione coah-coachee

abilismo

Come combattere l’abilismo nella relazione coach-coachee

Come dovrebbe approcciarsi un coach ad un cliente disabile?

Come può superare l’abilismo interiorizzato e le sue false credenze per aiutare efficacemente il suo coachee?

Disabilità

Partiamo dall’inizio e chiariamo chi sono le persone disabili, che costituiscono il 15/ 20% della popolazione mondiale[1], rappresentando quindi la minoranza più numerosa al mondo! Significa che ogni 10 persone circa, 2 sono disabili, ovvero ciascuno di noi conosce o ha a che fare con delle persone disabili o è a sua volta disabile.

Disabilità è un termine ombrello, poiché questa parola racchiude molteplici significati. Sarebbe sbagliato considerarla solo come un “problema di salute”, si tratta invece di un fenomeno complesso che riguarda l’interazione tra i corpi e la società in generale.

Se in passato parlare di disabilità faceva riferimento ad una serie di caratteristiche fisiche e mentali da “riparare”, col tempo questo termine ha cominciato ad indicare le limitazioni poste ad alcune persone da una società abilista, oltre ad alcune questioni legate alla loro identità.

L’Attivismo Disabile e i Disabilty Studies hanno avuto il merito di spostare l’attenzione dal discorso medico (situazione di salute contingente) al modello sociale di disabilità, secondo cui la disabilità è una condizione socialmente costruita! Le persone cioè, che si trovano in questa condizione, vivono in un ambiente che rende loro arduo, se non impossibile, condurre una vita piena e soddisfacente.

 

In cosa consiste l’abilismo.

Ma ora vediamo cosa si intende per abilismo.

  • L’abilismo è lo stigma o la discriminazione verso le persone disabili.
  • È un sistema di pensiero che si traduce in una struttura di potere (come razzismo, sessismo o specismo).
  • È un’oppressione sistemica, nella quale cioè siamo tutti immersi.
  • È un sistema di potere che attribuisce valore a corpi/menti non disabili (performanti secondo standard arbitrari seppur maggioritari), marginalizzando gli altri.

Stigmatizzare una persona o un gruppo sociale, significa attribuirgli solo caratteristiche negative (essere disabile è un male); inoltre paragonare l’abilismo al razzismo o ad altre forme di oppressione e di potere ci fa comprendere quanto sia diffuso nel tessuto sociale e politico.  Ma evidenzia anche come, a differenza ad esempio del razzismo, sia molto più subdolo. La maggior parte delle persone non riconosce di essere abilista,  credendosi invece tollerante e solidale nei confronti delle persone disabili.  E questo è molto pericoloso.

Poiché il linguaggio è anche in questo caso rilevante, è utile fare chiarezza su quali termini usare quando ci si riferisce alle persone disabili.

La comunità attiva ha scelto due termini principali:

  1. persone con disabilità (person first) se si vuole dare priorità alla persona;
  2. persone disabili (identity first), se si vuole invece privilegiare l’identità.

Oggi viene proposta una terza alternativa, persone disabilitate, con la quale si sposta l’attenzione dal soggetto alla società, che viene riconosciuta come responsabile della situazione di svantaggio del soggetto. Da notare a questo proposito come la narrazione dominante, anche in sede istituzionale, sia quella per cui la disabilità (compreso il disagio mentale) sia qualcosa che riguardi l’individuo (o al massimo la famiglia di origine), e che sia relegato perciò ad un problema della sfera privata, in cui la società non c’entra nulla.

Le questioni socio economiche vengono quindi escluse dal discorso sulla disabilità come se la società non avesse responsabilità in merito! È qui che si cela la trappola: le lotte per le pari opportunità o per l’accessibilità si trasformano in questioni private! Quando invece è necessario ricordare che deve essere la società a cambiare e a adattarsi alle esigenze di tutti i suoi componenti riconoscendo loro il diritto di esistere.

Il coach quindi dovrà sempre chiedere al suo coachee come preferisce essere chiamato, perché è appunto solo lui/lei a poter stabilire in quale definizione si riconosce.

Potrà anche succedere che per il cliente sia invece la prima volta che si trova a riflettere su certi temi e il coach dovrà quindi essere preparato a offrire il suo supporto. inoltre riconoscere di essere inserito in questo contesto e di aver interiorizzato l’abilismo. E poi decostruirlo!

 

Inspiration Porn

Spesso facciamo riferimento alla vita delle persone disabili o le includiamo per esempio nella narrazione cinematografica, solo come termine di paragone, per ricordarci quanto siamo fortunati a non essere come loro. O ancora peggio le usiamo come fonte di ispirazione. Quando Stella Young, attivista disabile, affermava dal palco del TED Talk 2012 “I’m not your inspiration”, si riferiva ad una specifica pratica legata alla performatività dei corpi. Con il temine Inspiration Porn la Young indicava la narrazione che vede le persone disabili come fonte di ispirazione e che racconta la disabilità come un limite da superare. Una narrazione secondo la quale se sei disabile puoi essere accettato nella misura in cui tu faccia cose straordinarie, eccella in qualche cosa, che tu sia insomma un super disabile! Questo tipo di argomentazione trascura la realtà della maggioranza delle persone disabili che, esattamente come quelle non disabili, non sono geni ma hanno, ciononostante, diritto a vivere vite significative e piene, indipendentemente da titoli accademici o dalle imprese eccezionali compiute!!!

 

L’illusione del corpo abile

Il corpo abile nella nostra società è lo standard a cui aspirare, qualsiasi deviazione da quella norma è vista come problematica o indesiderabile (per corpo si intende qui l’insieme di corpo-mente).

La società è quindi costruita per soddisfare i bisogni solo di alcune persone. Certi bisogni sono cioè accettabili nella misura in cui è una maggioranza ad averli (la maggioranza determina cosa è normale).

Il primo punto allora da accettare e da far accettare potenzialmente al nostro cliente (non dimentichiamo che le stesse persone disabili possono essere abiliste proprio perché cresciute in questa società!!!) è che l’abilità del corpo è un concetto fluido.

Se ci fermiamo a pensare possiamo osservare, ad esempio, che il processo di invecchiamento interessa tutti e che naturalmente potrà renderci meno abili e performanti, oppure che nell’arco della vita potremmo essere vittime di incidenti o malattie invalidanti, o semplicemente la stanchezza potrebbe inficiare la nostra performance in un dato momento.

Quello che dobbiamo inoltre sottolineare è come nella nostra società siamo tutti interdipendenti, eppure la sola dipendenza che ci spaventa e ci sembra indesiderabile è quella che riguarda le persone disabili. Siamo di nuovo di fronte ad un costrutto sociale, ad una falsa credenza da smantellare.

La società dei consumi ci ha fatto credere che il nostro valore risieda nella nostra capacità produttiva, nell’autonomia e nell’efficienza. Ciò ci spinge a cercare di dare il massimo anche quando il nostro corpo ci chiede di fermarci. Fortunatamente oggi si sta diffondendo una contro-cultura in cui si afferma l’importanza del riposo, la così detta self-care, e l’attenzione per i segnali di stress e esaurimento che ci lancia il nostro corpo.

Perché allora ciò non dovrebbe valere anche nel caso delle persone disabili? Perché il loro è un diritto meno riconosciuto? Perché di nuovo l’abilismo ci fa credere che i loro corpi anormali valgano di meno!

Sono corpi da medicalizzare, oggettivare, giudicare e infine disprezzare, a cui spesso è preferibile la morte!

Il compito del coach è allora quello di rendere il coachee disabile consapevole di cosa sia l’abilismo e di come contrastarlo per poter comprendere in modo più equilibrato la propria esperienza nella società.

Per esempio è di fondamentale importanza distinguere la condizione medica dalla disabilità. Se consideriamo la disabilità un aspetto della varietà umana, questo cambiamento di paradigma ci permette di superare l’idea nefasta per cui invece sia un problema medico da superare.

In realtà guardando le cose da questa prospettiva ci rendiamo conto che è il contesto sociale fatto di inaccessibilità e esclusione a dover essere corretto!

 

La piramide dell’abilismo

L’abilismo consiste quindi in una piramide di discriminazione che va dall’indifferenza e arriva al genocidio, passando per il paternalismo (non considerare la volontà della persona, oppure infantilizzarla), la negligenza (non curarla adeguatamente o sottovalutarne i sintomi), la svalutazione (non riconoscere il valore della persona e le sue esigenze), la discriminazione (non rispettarne i diritti), la segregazione (creare luoghi, come case di cura o classi differenziate, in cui vengono isolate) e la violenza diretta (omicidi e crimini d’odio).

Conoscere e riconoscere lo stato delle cose è il primo step per superare questa situazione.

Un ulteriore passo in questa direzione è aiutare il coachee a comprendere che l’abilismo non è solo interiorizzato dalle persone disabili ma è anche orizzontale!

  1. Interiorizzare l’abilismo significa cercare di nascondere la propria disabilità, rifiutare i supporti utili (come la carrozzina), evitare di frequentare le altre persone disabili, considerate in modo degradante (io non sono come loro!), abbassare gli standard e sentirsi sempre in debito verso gli altri, oppure sentirsi in dovere di compensare la disabilità con altre caratteristiche o capacità!!!
  2. L’abilismo orizzontale è quello che porta le persone disabili a criticare le altre persone disabili, a sentirsi migliori, o ad escludere a priori una relazione con un’altra persona disabile (non ci si deve “accontentare”). È cercare di adattarsi alle aspettative della maggioranza, di somigliarle e cercarne l’approvazione.

Intersezionalità

Un’altra questione di cui tener conto, infine, riguarda il concetto di intersezionalità. In sociologia e giurisprudenza è stato introdotto questo termine nel 1989 dalla giurista e attivista Kimberlé Crenshaw per descrivere la sovrapposizione di diverse identità sociali (genere, etnia, disabilità, orientamento sessuale) e le relative possibili e particolari discriminazioni, oppressioni, o dominazioni. La lotta quindi per il conseguimento dei diritti di alcune categorie non può prescindere da quella delle altre.

Per concludere possiamo aiutare il coachee ad affrontare la disabilità in relazione:

  • All’identità.
  • Alla cura.
  • Ai mass media.
  • Alla famiglia.
  • Alle violenze.
  • All’integrazione.

Compiere insieme questo viaggio aiuterà sia loro che noi a uscirne persone migliori.

 

 

Riferimenti bibliografici: E. Paolini, M. C. Paolini, Mezze Persone, Aut Aut edizioni 2002. E. Paolini, M. C. Paolini, Che brava che sei, i Robinson, 2023. S. Taylor, Bestie da soma. Disabilità e liberazione animale, Edizioni degli animali, 2021. B. G. Bello, Intersezionalità. Teorie e pratiche tra diritto e società.

[1] World Health Organization, Summary: World Report on Disability, 2011.

Il Coaching e il nostro respiro interiore

respiro interiore

Un respiro profondo può aiutare il corpo a rilassarsi e recuperare energia e benessere, così il Coaching può farlo per il nostro mondo interiore.

Nella nostra vita può succedere, lentamente ed inconsapevolmente, che il mondo esterno a noi catturi tutta la nostra attenzione. C’è la famiglia a cui devotamente consacriamo noi stessi: “Voglio essere una brava mamma, una figlia riconoscente, un marito amorevole…”.
C’è il lavoro a cui altrettanto ci consacriamo perché è necessario e perché è diventato un elemento fondante della nostra identità: quando conosciamo una persona ci interessiamo del suo nome e subito dopo arriva la fatidica domanda “Che lavoro fai?”, “di cosa ti occupi?”.

Ci sono le aspettative di chi ci è più o meno vicino: “tesoro, abbiamo fatto tutto questo per te!”, “ci conto! so che tu puoi aiutarmi”, “quando ci sei tu va tutto bene”.
Ci sono le nostre aspettative su noi stessi: “devo fare carriera”, “devo dimostrare di essere capace”, “voglio diventare genitore” …

A volte inseguiamo progetti o intenzioni che ci trasciniamo da un po’ e che non sappiamo più nemmeno da dove provengano ma che ci tengono legati: cambiare lavoro, rinnovare una stanza della casa, cominciare a fare attività fisica (“perché fa bene e io l’abbonamento annuale open h24 l’ho pure già pagato da un po’!”), mangiare meglio e cucinare con cura (“basta con il cibo spazzatura perché come nutro il corpo nutro l’anima!”).

Può accadere che più i nostri programmi restano incompiuti e più ci sentiamo frustrati. Appena svegli ci sentiamo stanchi e nervosi, e poi ci sembra di rincorrere sempre qualcosa o qualcuno e non appena raggiungiamo la presunta meta, ci proiettiamo alla prossima ripartenza. Quanto è faticoso! Insieme alla nostra attenzione si affievolisce anche la nostra energia.

Cosa facciamo quando siamo fisicamente stanchi ed esausti? Respiriamo.

Ci fermiamo, seduti o sdraiati o in piedi, poco importa, e respiriamo. Perché il respiro, per fortuna, non ha bisogno della nostra volontà e della nostra decisione per agire e tenerci vivi. Lui agisce autonomamente, ci sostiene e ci permette di vivere e sopravvivere.

Fare un percorso di Coaching è sostenere il nostro respiro interiore

E’ prendere aria fresca, distendere la mente, schiarire la nebbia, far emergere noi stessi. Come la calma dopo un mare in tempesta: finché il mare è mosso è tutto grigioverde, non vedi il fondo, non vedi cosa c’è in acqua, non vedi la direzione in cui stai andando, sei disorientato e hai paura.
Quando il mare si calma, la sabbia scende sul fondo, l’acqua diventa cristallina, il fondale è chiaro e distingui i tuoi piedi, vedi bene e puoi scegliere in che direzione andare, sei calmo.

Attraverso il Coaching porti a galla le tue potenzialità, le tue risorse, le tue qualità. Puoi far riemergere con chiarezza i tuoi bisogni e desideri e, cambiando il tuo comportamento, puoi dare loro ascolto e trasformarli in realtà.
Puoi risvegliare la tua essenza, chi sei (a prescindere dal tuo lavoro!), cosa vuoi, quanto lo vuoi.

Ti propongo di prendere carta e penna e provare a rispondere per iscritto a queste domande:

  • Se ora potessi scegliere con una bacchetta magica in che luogo trovarti, dove saresti?
  • Quali persone avresti accanto a te?
  • Quando è stata l’ultima volta che ti sei detto, “brava! bravo! ora rilassati e celebra il tuo successo”
  • Qual è una delle cose più positive che hai fatto nella tua vita? (la prima che ti viene in mente, come “ho salvato un gattino mentre attraversava la strada”)
  • Qual è l’ultima cosa che hai fatto per te?

 

Il Coaching può aiutarti a trovare le risposte, migliorare il tuo benessere, riprendere in mano il timone della tua vita, sentirti allineato alla tua essenza e forte delle tue azioni, vivere con chiarezza e positività.

Se rafforzi il tuo benessere sarai in grado di sostenere anche il benessere degli altri.
Come facciamo a salvare gli altri se non salviamo noi stessi?
Nutri il tuo respiro interiore.
Respira e fai respirare il mondo.

Che cos’è il Coaching?

Prima  di definire cos’è il Coaching, potrebbe essere utile specificare cosa NON è, perché spesso intorno a questo argomento c’è molta confusione.

 

Quando mi viene chiesto : “Ma di cosa ti occupi ora?” .Rispondo soddisfatta: “Sono una Life Coach!” e vedo negli occhi di alcuni lo stupore. Occhi che ti guardano come per chiederti : “E cos’è?”.  Alcuni lo chiedono esplicitamente spinti dalla curiosità, magari perché ne hanno già sentito parlare, altri invece mi rispondono: “Ah sì! Il Coach! Chiaro!”, ma magari non ne conoscono assolutamente il significato, oppure non sono affatto interessati a saperne di più e noto quindi molta incertezza e confusione.

Per questo motivo ho deciso di scrivere un articolo sul Coaching provando a spiegare chi è il Coach e cosa fa. È bene specificare che la figura del Coach viene spesso erroneamente associata ad altre figure professionali, ad esempio il formatore o lo psicoterapeuta, ma in realtà non istruisce nessuno né tantomeno cura un disagio psicologico (laddove infatti ne riscontrasse uno sarebbe tenuto a indirizzare il cliente verso una psicoterapia).

Ma allora il Coach cosa fa?

Il Coach è una figura che affonda le sue radici nell’arte della MAIEUTICA di Socrate, ovvero l’arte di far emergere attraverso il dialogo ciò che risiede nell’animo di ognuno.

Socrate affermava che il Maestro è un traghettatore, una guida che svela le strade da percorrere portando l’allievo a riconoscere le sue verità e le sue contraddizioni.                                                                                                                                                                                                                          Egli partiva dal presupposto che le persone hanno già dentro di sé tutte le risposte ed accompagnava i suoi allievi, attraverso il dialogo e le domande, a ricercare la verità dentro se stessi; ed è proprio questo che fa un bravo Coach.

La parola Coach in inglese significa allenatore, ma anche carrozza o veicolo, dal francese “Coche”  , un antico cocchio.

Cosa succede in un percorso di Coaching?

La persona sale sulla carrozza e, partendo dalla sua situazione attuale, si dirige verso una meta che deciderà soltanto lei. Il Coach aiuterà così il cliente , attraverso un processo creativo costituito da domande “potenti”, a stimolare la riflessione e l’introspezione più autentica di sé, a riscoprire il suo potenziale e le sue capacità e a raggiungere i suoi obiettivi aumentando il suo livello di benessere.  Quante volte abbiamo il desiderio di realizzare qualcosa, in ambito lavorativo ad esempio, o in quello relazionale, ma spesso resta un semplice desiderio che crediamo irrealizzabile?

Questo accade perché abbiamo dei blocchi, delle convinzioni limitanti su di noi o sugli altri, delle interferenze che non ci permettono di esprimere al meglio il nostro POTENZIALE. Può succedere inoltre che le nostre prestazioni siano nettamente inferiori al nostro potenziale, ed è qui che il Coach entra in azione , valorizzando le RISORSE uniche di ciascun individuo fondamentali per il suo benessere.  Tra Coach e coachee  si costruisce una relazione di partnership, in cui il Coach accompagna il coachee      verso la consapevolezza senza, però deciderne o consigliarne il percorso da intraprendere: il Coach è un alleato del suo cliente e ha piena fiducia nel suo potenziale.

Esistono diverse tipologie di Coaching;  il LIFE/PERSONAL Coaching che riguarda la sfera privata e favorisce un cambiamento  a livello personale; Il BUSINESS Coaching che attiene all’ambiente professionale; l’EXECUTIVE Coaching che  è rivolto alle figure ai vertici aziendali; il CORPORATE Coaching che lavora con le aziende e i loro team; il CAREER Coaching che è rivolto ai professionisti che vogliono valorizzare le loro competenze, lo SPORT Coaching che viene utilizzato in ambito sportivo; il WELLNES Coaching che è incentrato sul raggiungimento del benessere fisico; il TEEN E PARENT Coaching rivolto ad adolescenti e genitori in difficoltà relazionali.

Il Coach infonde fiducia in se stessi, evocando quella consapevolezza che ci dà la libertà di diventare ciò che realmente vogliamo essere.            Attraverso il Coaching è possibile ascoltare e cambiare il nostro dialogo interiore che influenza le nostre emozioni e i nostri pensieri limitanti.

“I nostri pensieri non sono semplici reazioni agli eventi, essi cambiano il corso degli eventi”                                                                M. Seligman

Concludendo possiamo con certezza affermare che avere un Coach al proprio fianco in un percorso di vita è un punto di forza, soprattutto nel mondo di oggi dove troppo spesso regna la confusione.                                                                                                                                                            Se tutti avessero un professionista del cambiamento come il Coach, si potrebbero realizzare risultati incredibili ed il mondo sarebbe un posto migliore!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’empatia

l'empatia

L’EMPATIA

 

Per essere un/a bravo/a coach e per comunicare in maniera efficace è necessario avere una buona capacità di ascolto e di empatia!

Ma che significa essere empatici? Per essere empatici bisogna riuscire a mettersi nei panni degli altri, sentire i loro stati d’animo, i loro sentimenti e le emozioni. Ciò non vuol dire condividere il loro punto di vista, ma mettersi in una posizione di dialogo aperto e sincero, cosa fondamentale quando iniziamo una relazione di coaching.

L’empatia nasce dall’autoconsapevolezza: più siamo capaci di percepire le nostre emozioni, più facilmente capiremo quelle degli altri!!!

 

“Prima cerca di capire, poi di farti capire”[1]

 

Questa è la quinta regola che Covey espone nel capitolo dedicato alla comunicazione empatica. Se comunicare è la più importante delle facoltà, dobbiamo essere consapevoli che l’altro ci concederà la sua fiducia solo dopo essere entrato in connessione con noi, solo dopo che si sentirà capito.

Questo modello richiede un cambio di paradigma: capire l’altro attraverso l’empatia e poi farsi capire. Significa osservare il mondo nel modo in cui lo osserva il nostro interlocutore e capire cosa prova.

Ma empatia non è simpatia. La simpatia è una forma di accordo e quindi di giudizio. L’ascolto empatico non prevede l’accordo con qualcuno, ma capirlo profondamente a livello emotivo e intellettuale.

La comunicazione empatica è l’unica che può essere davvero influente e efficace per un/a coach (e non solo) perché, dopo la sopravvivenza fisica, il più grande bisogno dell’essere umano è quello di essere capito!

 

EMPATIA E INTELLIGENZA EMOTIVA

 

L’empatia è una componente fondamentale dell’intelligenza emotiva (EQ)!

È proprio Covey[2] a spiegarci cosa si intende per intelligenza emotiva e perché è tanto importante nelle relazioni e nella comunicazione.

“L’intelligenza emotiva è la conoscenza di sé, l’autoconsapevolezza, la sensibilità sociale, l’empatia e l’abilità di comunicare efficacemente con gli altri. È capire quando è il momento giusto, interagire socialmente in maniera appropriata, avere il coraggio di ammettere le proprie debolezze ed esprimere e rispettare le differenze.

Alla luce di ciò è importante identificare alcuni punti per poter stabilire una connessione empatica con chi ci ascolta:

  • Quali sono le caratteristiche principali del nostro coachee;
  • Quali sono i suoi valori;
  • Quali sono le sue aspettative rispetto al nostro percorso;
  • Quali difficoltà può riscontrare e come puoi aiutarlo;
  • Quali sono i suoi desideri (obiettivi);
  • Bisogna infine creare una connessione attraverso ethos, pathos e logos; devi cioè conquistare la sua fiducia con la tua credibilità, suscitare le emozioni connesse ai suoi valori e usare argomentazioni valide!!!

Ricorda infine che nella relazione di coaching il protagonista è sempre il coachee con il suo obiettivo!

[1] S. Covey, Le 7 regole per avere successo, 1989, Franco Angeli.

[2] S. Covey, L’ottava regola. Dall’efficacia all’eccellenza, 2005, Franco Angeli.

L’8 marzo regalati uno sbaglio

Come uscire dal perfezionismo femminile

Avere grandi aspirazioni e voler dimostrare il proprio valore è di per sè qualcosa di positivo  e se incanaliamo le energie nella giusta direzione può anche portarci ad un’eccellenza funzionale che una volta raggiunta genera soddisfazione, entusiasmo e autoefficacia.

Quando gli obiettivi diventano però  troppo sfidanti e soprattutto quando giudichiamo il nostro valore in base alla nostra performance, se non riusciamo a fare tutto (come è naturale che sia), sentiamo di aver fallito, di non essere state capaci, di aver “scontentato” qualcuno.

Non possiamo delegare perchè gli altri potrebbero sbagliare! Nascondiamo errori per paura del giudizio e abbiamo sempre la percezione che avremmo potuto fare meglio e che se non è tutto perfetto allora è un fallimento.

Perdiamo così il contatto con la nostra parte più intima, con il nostro intuito, con ciò che davvero conta, perchè diamo priorità a quello che dobbiamo dimostrare anzichè a ciò che conta e ci fa stare bene.

Procrastiniamo o rinunciamo a ciò che potrebbe renderci felici finchè non raggiunge il nostro standard di perfezione che alza però l’asticella prima ancora di aver raggiunto l’obiettivo lasciandoci sempre con l’acquolina in bocca.

Ho voluto la perfezione e ho rovinato ciò che andava bene” ci ricorda Monet.

Se quando le cose vanno bene parliamo di successi mentre quando vanno per il verso sbagliato parliamo di fallimento non lasciamo spazio alla opportunità di apprendere dagli errori.

E quando non esistono sfumature, o si vince o si perde tragicamente . Gli errori non sono contemplati e quando arrivano decretano il fallimento.

Ci identifichiamo talmente tanto in essi che paralizziamo i nostri comportamenti e ancor prima le nostre idee e le nostre emozioni.

Se invece proviamo ad accostare il termine “fallimento” a situzioni e cose e capiamo che non si riferisce alle persone, tutto può cambiare.

Secondo uno studio che ha indagato sui vari aspetti del perfezionismo, condotto dalla Dalhousie University e dalla York St John University su 25.000 partecipanti,è emerso come i due terzi fosse rappresentato da donne.

Per celebrare la ricorrenza dell’8 marzo  dunque non regaliamoci un altro incarico, un’altra etichetta da affibbiarci, non abbiamo bisogno di complimenti su quanto siamo multitasking.

Regaliamoci  il  diritto di sbagliare!

Diffondiamo una nuova cultura nel nostro piccolo, tra madre e figlia, tra sorelle o semplicemente tra colleghe, facciamo pratica di piccole imperfezioni ogni giorno, alleniamo il coraggio di essere imperfette!

Concediamoci nuove abitudini che ci facciano uscire dai rigidi schemi mentali che ci autoimponiamo: ritardiamo quella consegna a lavoro, cambiamo strada per andare a casa, chiamiamo la babysitter e dedichiamoci quell’ora, quel film, quel libro che non serve a farci imparare una nuova task ma a viaggiare con la fantasia, cambiamo posto a tavola, ridiamo di noi, facciamo ridere gli altri dei nostri capelli arruffati; portiamo fuori il cane in pigiama; il pane per oggi lo comprerà qualcun altro, il trono da perfetta lo possiamo togliere e sentire quanto pesava.

La nostra testa ora può concedersi un pò di leggerezza tra le nuvole .

Possiamo gioire anche di un dolce bruciacchiato, di una pizza lievitata male, possiamo dormire ugualmente senza aver rifatto il letto e cucinare quel piatto anche se manca un’ingrediente .

Possiamo tutto non perchè siamo multitaskin ma perchè siamo gioia e tristezza, serietà e leggerezza, precisione ed errore.

Un percorso di coaching può aiutartci a ritrovare la strada nella nebbia, facendo scegliere a noi il mezzo da utilizzare, che sia un auto, un pullman o una moto.

Riscoprire ciò che conta davvero e fissare obiettivi adeguati è il regalo che dobbiamo farci. Null’altro.

 

Uscire dalla zona di comfort con il coaching

zona di comfort

Una delle ragioni principali per cui si sceglie di intraprendere un percorso di coaching è una ruggente necessità di cambiamento, di spinta all’evoluzione. E’ spesso la risposta a un bisogno che abbiamo da anni di uscire dalla zona di comfort che però è davvero difficile da abbandonare!

Mi è sempre piaciuta la parola “comfort” in tutte le sue sfaccettature: un letto confortevole, un hotel a 5 stelle, una macchina con tutti i ‘plus’, ma anche in assenza di benefit di lusso ognuno di noi cerca di stare in una dimensione in cui le cose ci mettano a nostro agio e ci facciano sentire pienamente nel nostro perimetro di benessere. La letteratura moderna però ci spinge sempre più ad uscire da questo recinto di protezione, sia perché siamo continuamente sottoposti a nuove sfide e cambiamenti, sia perché ci vengono richieste prestazioni migliori ed efficienti in tutti gli ambiti della nostra vita, personale e professionale.

Il rischio di rimanere intrappolati nella nostra zona di comfort

La zona di comfort rappresenta quell’insieme di abitudini, comportamenti e ambienti familiari in cui ci sentiamo al sicuro e protetti, e sebbene questo possa offrire una temporanea sensazione di stabilità, rimanere intrappolati a lungo in questa zona può diventare una vera e propria gabbia, che limita la crescita personale e le opportunità di scoprire cosa c’è oltre il recinto. 

Allontanarsi anche solo temporaneamente dalle abitudini quotidiane, ma anche dalle nostre convinzioni limitanti e dalle resistenze, non può farci che bene. Purtroppo tendiamo sempre a preservare il nostro status quo, anche quando non ci soddisfa pienamente, per evitare l’incertezza e il disagio che scaturiscono dal cambiamento. Le grandi sfide, il “nuovo” ci terrorizzano. Riconoscere e rimuovere queste barriere che spesso ci imponiamo da soli, è il primo passo per iniziare a confrontarci con i nostri ‘demoni interiori’. Accogliere il cambiamento e abbracciare l’incertezza arricchirà profondamente le nostre esperienze e ci farà esplorare pienamente il nostro potenziale.

Alcuni studi in ambito psicologico hanno evidenziato come l’esposizione a nuove esperienze sia fondamentale per lo sviluppo delle competenze, l’innovazione e il mantenimento di un elevato livello di benessere psicologico. Questo non significa che dobbiamo svegliarci una mattina e lanciarci con il paracadute o buttare le nostre amate vecchie scarpe, ma arriva sempre un momento in cui ci sentiamo pronti a “gettare il cuore oltre l’ostacolo” e il Coaching ha un ruolo fondamentale in questo percorso di ‘esplorazione’.

Quindi più che uscire dalla nostra Comfort zone, potremmo pensare ad ampliarla. Che ne pensate? 

Inizia da cambiamenti minimi e gestibili: anche un piccolo passo può aiutare ad espandere i confini e aumentare la tolleranza al cambiamento. Anche solo cambiare la strada che fai tutti i giorni per andare a lavoro. Definisci degli obiettivi specifici, misurabili e raggiungibili che ti spingano un minimo oltre i tuoi limiti attuali, ma abbastanza sfidanti da richiedere uno sforzo e un impegno nuovi. Fatti aiutare da un coach. Ricerca nuove esperienze che possano stimolare la creatività e l’adattabilità e fallo con una mentalità aperta al cambiamento e flessibile. Circondati di alleati che ti incoraggino a correre dei rischi e a sperimentare, e avvicinati a persone che sono per te da esempio (mentoring).

comfort zone

Quale sarà il nostro più grande ostacolo, ma anche la maggiore risorsa? Il fallimento. E con lui la paura in generale di sbagliare, di sentirsi inadeguati. Va bene tutto: riconoscere che si può fallire e che si può avere paura: questo fa parte del naturale processo di apprendimento e dell’essere “umani”, e può diventare un potente strumento di sviluppo e autoconsapevolezza. 

Ma quando è il momento giusto per lasciare comfort zone?

Non sempre possiamo farlo, a volte abbiamo necessità di poter godere della stabilità che ci offre; in alcuni casi se una persona soffre di elevati livelli di stress o disagio psicofisico, ovviamente non è in condizione di mettere in campo altre risorse. 

Ho letto da qualche parte che Santa Teresa diceva “in tempo di tempeste non fare traslochi”, il che fa pensare che verosimilmente si agisce meglio quando la pressione si riduce e che magari non è il caso di intraprendere percorsi particolarmente sfidanti, se nel mentre si sta combattendo con una serie di eventi che ci rubano energia.

Il segreto è trovare un giusto equilibrio. Quando sarete pronti, insieme al vostro Coach, potrete pianificare un bel viaggetto al di fuori di voi stessi, valutando insieme obiettivi, alleati e anche eventuali ostacoli. Potrete fare rientro “a casa” quando volete, ma la consapevolezza, la pienezza del vostro animo dopo essere stati in grado di sperimentare ciò che vi faceva paura, vi renderà più forti e più liberi. Invincibili.

Piccoli grandi Eroi. 

Come affrontare lo stress da pandemia

Come gestire lo stress da pandemia

Come affrontare lo stress da pandemia: 5 consigli per aumentare la tua centratura e il tuo benessere psicofisico

In questi giorni siamo tutti sottoposti a un grande stress, dato dall’imprevedibilità della situazione in cui siamo immersi. Lo spettro di un possibile nuovo lockdown si affaccia nelle nostre vite portando una sensazione di impotenza di fronte a scenari che non sono sotto il nostro controllo.

La difficoltà di fare piani per il futuro ci fa sentire sospesi in un limbo, in cui è facile cadere preda di paura e rabbia.

Ed ecco che nella nostra testa diventiamo registi di film in cui mettiamo in scena i nostri peggiori timori. Da quello per la nostra salute a quello di restare senza lavoro.

La paura può compromettere la nostra serenità psicologica e in alcuni casi anche la qualità del sonno.

Molto spesso poi è la rabbia a dominarci. Il fatto di essere privati di libertà trova sfogo nell’urgenza di urlare anche sui social tutto il proprio odio.

In momenti come questo, sentirsi arrabbiati o impauriti è assolutamente normale.

Ma cosa accade se queste emozioni “sequestrano” la nostra mente?

In questi casi è facile restare intrappolati in un circuito di pensieri ripetitivi e distruttivi che ci intossicano, peggiorando una situazione già molto critica.

Coltivare la lamentela, per quanto del tutto legittima e giustificabile, purtroppo non migliora le cose; al contrario, non fa altro che accrescere il senso di impotenza e frustrazione.

Alimentare l’ansia consultando costantemente i dati dei contagi oppure rendere la pandemia il proprio principale oggetto di attenzione e conversazione, finisce per aumentare l’angoscia.

D’altra parte anche coltivare un ottimismo cieco che non tenga conto della situazione sarebbe inutile se non controproducente.

Allora cosa si può fare in questi casi? Come affrontare l’incertezza senza essere in balìa delle nostre emozioni?

A volte non possiamo cambiare le cose, ma possiamo cambiare il nostro modo di affrontarle, scegliendo la modalità che ci fa stare meglio.

Qualcuno magari può obiettare che in un momento del genere abbiamo ben poche libertà, se non quella di sfogarci come possiamo.

Ma è davvero così?

L’esperienza di grandi personaggi come Nelson Mandela e Viktor Frankl, sopravvissuti, rispettivamente, alla prigionia e ai lager nazisti, ci insegna che anche nelle situazioni di costrizione l’uomo ha sempre uno spazio di libertà: quello di scegliere il modo in cui affrontare la situazione. Ed è proprio questa attitudine a fare la differenza.

Dunque anche quando non sembra, c’è sempre un margine di potere personale per migliorare il presente.

Ognuno di noi ha dentro di sé delle risorse che neppure immagina. L’essere umano ha la capacità  di resistere agli eventi stressanti, trasformandoli in occasione di crescita e cambiamento.

È vero, non è facile, ma neppure impossibile.

Ecco allora 5 consigli pratici per ridurre lo stress

1) utilizza con equilibrio l’informazione

Nella nostra vita è fondamentale dove concentriamo la nostra attenzione, cioè il focus.

Soffermarsi costantemente solo sull’andamento della pandemia, il bollettino dei contagi, seguire ogni polemica sulla gestione dell’emergenza finisce per aumentare il senso di impotenza e il livello di stress.

Il segreto è quello di rimanere informati senza farci invadere dal bombardamento costante di notizie dei media e sui social. È importante riuscire a comprendere il confine tra la conoscenza che ci aiuta ad affrontare i momenti difficili e l’intossicarsi di particolari.

2) Prenditi cura di te

Quali attività puoi svolgere per prenderti cura di te?

Ognuno ha i propri personali modi per farlo. Può trattarsi anche di cose molto semplici, come ad esempio un bagno caldo, una sessione di yoga, meditare, leggere un buon libro e, perché no? Guardare la tua serie tv preferita.

In momenti del genere è importante più che mai ritagliarsi costantemente degli spazi, anche se brevi, per queste attività.

In questo modo possiamo alimentare stati d’animo positivi che abbassano il livello di cortisolo, l’”ormone dello stress”, preservando la funzionalità del nostro sistema immunitario e aumentando la capacità di gestire il momento di crisi.

3) Pratica con costanza un’attività fisica

È ormai dimostrato che l’attività fisica regolare previene ed allevia i sintomi dell’ansia e dello stress.

Lo sport infatti agisce sull’attività neuronale, aumentando il rilascio di endorfina, che produce effetti antidolorifici e genera sensazioni positive.

Praticare un’attività fisica è possibile anche da casa ed è un modo semplice per aumentare il tuo benessere psicofisico.

Inoltre, porsi l’obiettivo di praticare un’attività fisica con costanza anche in un momento difficile e portarlo a termine incide positivamente sull’autostima e la fiducia in se stessi.

4) Coltiva le relazioni

Le occasioni per vedere dal vivo le persone a cui teniamo diventano sempre di meno. Allora possiamo usare la creatività. Può essere bello ed intimo anche solo fare una videochiamata a un amico e vedere il suo sorriso, parlare di momenti speciali passati insieme o di progetti futuri.

Secondo alcuni studi, poi, l’interazione sociale è in grado di prevenire l’ansia, diminuire il rischio di insorgenza di depressione e migliorare lo stato di salute.

5) Allena il pensiero creativo

La creatività nei momenti di incertezza e caos può aiutarci a trovare strade alternative per risolvere i problemi o persino possibili vantaggi collaterali.

Si tratta di guardare le cose da un’altra prospettiva, per cogliere aspetti diversi di una situazione che sembra un vicolo cieco.

Sembra quasi impossibile, eppure persino in tempo di lockdown c’è chi ce l’ha fatta.

Ad esempio, sia in Italia che nel mondo alcune persone hanno avuto intuizioni vincenti e si sono date da fare per convertire il loro business in attività in quel momento in espansione oppure per trasformare le modalità di erogare i loro prodotti e servizi in modo da evitare il fallimento.

Non deve per forza trattarsi di cambiamenti così profondi. Ognuno nel suo piccolo può utilizzare la creatività per trovare soluzioni ai problemi quotidiani e, chissà.. magari riuscire in qualche modo a volgere a proprio favore il presente.

Per riuscire ad attingere al lato intuitivo del nostro cervello occorre coltivare un’attitudine di apertura e curiosità rispetto a ciò che ci circonda, senza rassegnarsi o fermarsi alla superficie delle cose.

Solo in questo modo è possibile trasformare anche la crisi più profonda in opportunità di cambiamento positivo e dare un nuovo significato alla nostra vita.

“Quando non siamo più in grado di cambiare una situazione… Siamo sfidati a cambiare noi stessi.”

Viktor Frankl

Alessandra Fioretti, Psicoterapeuta e Sibilla Ceccarelli, Life Coach

Potenziare l’autostima per instaurare relazioni felici e appaganti

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Potenziare l’autostima per instaurare relazioni felici e appaganti. Una giornata di formazione al Centro Antiviolenza Erize per allenare l’autostima e la cura di sé

Lo scorso 4 maggio, la Psicologa e Psicoterapeuta Rita Zumbo ha tenuto un seminario esperienziale presso il centro antiviolenza M. A. Erize sull’autostima.

Abbiamo già visto nei precedenti incontri come la bassa autostima accomuni sia il narcisista che il dipendente affettivo: Il dipendente affettivo crede di non essere “abbastanza” da meritare amore, mentre il narcisista non è in grado di tollerare che venga messa in discussione in qualche modo la sua persona. Entrambi, quindi, sono dipendenti dall’approvazione altrui e non sono in grado di accettare e accogliere loro stessi così come sono, con pregi e difetti.

Per superare tali disturbi, quindi, è necessario lavorare sull’amore e il rispetto che ognuno di noi nutre verso se stesso.

Aumentare l’autostima diventando più sicuri e consapevoli di se stessi è un passaggio fondamentale per lasciare alle spalle relazioni disfunzionali causa di tanta sofferenza e iniziare un nuovo capitolo della propria vita.

Come fare?

Per prima cosa iniziando a prendersi cura di se stessi, perché la cura è l’inizio della guarigione.

“La verità è che l’unica persona con cui passeremo tutta la nostra vita siamo noi stessi”. (cit)

Prendersi cura vuol dire nutrire qualcuno con un’attenzione amorevole; proprio come faremmo con un bambino che vogliamo far crescere sano o con una pianta che vogliamo rendere rigogliosa.

Prima di esplorare il concetto della cura di sé occorre però chiarire cosa si intende per autostima, parola diventata ormai di uso comune ma di cui spesso non si conosce il vero significato.

L’autostima

Già scomponendo la parola auto-stima, possiamo comprendere come essa faccia riferimento a una valutazione che ogni individuo compie di se stesso e come in realtà non abbia nulla a che fare con la stima altrui, proveniente dall’esterno. Eppure, una caratteristica di chi ha una bassa autostima è proprio quella di far dipendere l’idea che ha di sé dall’approvazione degli altri.

Ognuno di noi, nell’arco della propria vita, si forma un concetto di sé che è soggettivo, cioè non corrisponde necessariamente alla realtà oggettiva. Ad esempio, una persona potrebbe essere convinta di non essere brava nel suo lavoro nonostante abbia continue dimostrazioni dall’esterno delle sue ottime capacità e viceversa.

L’autostima ha una serie di corollari ad essa collegati; allenando l’autostima, infatti, è possibile sviluppare:

  • l’autocontrollo, ovvero la capacità di controllare le emozioni;
  • la fiducia in se stessi;
  • l’autoregolazione, cioè la padronanza dei propri comportamenti;
  • il senso di autoefficacia, cioè la consapevolezza circa l’efficacia dei propri comportamenti;
  • l’autorealizzazione, ovvero la spinta a realizzare se stessi nell’ambito di un progetto di vita che punti alla felicità.

Possibili cause di una scarsa autostima

A formare l’idea che ognuno ha di sé contribuiscono le relazioni con le figure genitoriali e le successive esperienze di vita.

Ogni bambino, per sviluppare una solida autostima, deve sentirsi approvato dai genitori. Se questo non avviene, la necessità di approvazione altrui non finirà con il periodo dell’infanzia ma resterà una costante nella vita dell’individuo. Tale dinamica lo renderà di fatto dipendente dall’accettazione esterna, facendo entrare una grande sofferenza nella sua vita.

L’autostima, infatti, riflette la valutazione operata dall’individuo delle sue esperienze e comportamenti passati e questa influenza i suoi comportamenti futuri. Se ad esempio fin da piccoli ci hanno continuamente ripetuto i nostri difetti senza mai darci conferme positive, è probabile che finiremo per convincerci di essere “sbagliati” e leggeremo tutte le successive esperienze in chiave negativa, trovando in esse conferma della nostra presunta inadeguatezza. Questa convinzione negativa, inoltre, ci predisporrà a mettere in atto comportamenti che faranno sì che nella nostra vita si ripetano situazioni che confermino tale idea.

In altre parole, l’autostima è la valutazione del nostro concetto di sé, che è dato dal rapporto tra come percepiamo noi stessi, cioè il cosiddetto sé percepito e il sé ideale.

Il sé ideale corrisponde al modo in cui ognuno di noi vorrebbe che gli altri lo vedessero. Esso è legato alle esperienze dell’infanzia e rispecchia le aspettative dei genitori. Per fare un esempio, se un genitore ha cresciuto il proprio figlio con l’aspettativa che debba essere sempre il migliore della classe e diventare un grande professionista, il ragazzo dovrà confrontarsi durante la crescita con un sé ideale difficile da raggiungere e questo lo porterà a vivere come un enorme fallimento ogni banale difficoltà scolastica incontrata lungo il percorso.

La mancanza di autostima, quindi, è spesso il risultato di un grande divario tra come pensiamo di essere (sé percepito) e come vorremmo essere (sé ideale). Parlo di quella costante sensazione di non essere mai abbastanza, nei vari ambiti della vita, di non raggiungere mai un ideale di perfezione, a prescindere dai risultati e feedback positivi che possono arrivare dall’esterno.

Viceversa, più i due concetti di sé percepito e di sé ideale coincidono, più possiamo sperimentare una solida autostima.

Altre volte, invece, la scarsa autostima può essere causata da una distorsione nel modo di percepire se stessi: non sempre, infatti, il sé reale, cioè chi siamo oggettivamente, e il sé percepito, cioè la nostra idea di noi, corrispondono. Ad esempio, un individuo affetto da anoressia, può arrivare a guardarsi allo specchio e vedersi grasso nonostante sia gravemente sottopeso.

La resilienza

Abbiamo visto come la mancanza di autostima può dipendere dalle relazioni instaurate con le figure genitoriali durante l’infanzia. Eppure, come è possibile spiegare che, a parità di situazione familiare difficile, alcune persone presentano problemi di autostima e altre no?

La risposta risiede nel concetto di resilienza. La resilienza è la capacità di reagire in modo creativo e positivo agli eventi negativi.

Sono esempi di resilienza la pittrice Frida Kahlo o altri noti personaggi contemporanei come Alex Zanardi e Bebe Vio, le cui biografie dimostrano come siano stati in grado di affrontare gravi problemi fisici con grande slancio vitale.

Alcuni individui presentano questa capacità in forma innata, mentre altri la possono sviluppare successivamente nel corso della vita. La buona notizia è che è possibile allenarla, cominciando a guardare ad ogni difficoltà come ad un’occasione di crescita personale.

L’amore verso se stessi

Se è vero che le esperienze del passato possono aver avuto un impatto negativo sulla nostra autostima, questo non vuol dire che non sia possibile lavorare su noi stessi per cominciare a volerci bene e accettarci così come siamo.

Avere una solida autostima, infatti, non significa arrivare al proprio sé ideale, ma vuol dire accettare di non poter raggiungere una perfezione che di fatto non esiste.

Amare se stessi vuol dire nutrire profondo rispetto verso la propria persona, malgrado i difetti e le fragilità. Solo quando accettiamo noi stessi per quello che siamo, possiamo trasformare positivamente degli aspetti di noi e crescere. Accettare infatti non equivale a rassegnarsi passivamente, bensì ad accogliere amorevolmente.

Come già detto, i problemi di autostima sono connessi alla ricerca di approvazione dall’esterno.

Ogni individuo adulto dovrebbe invece iniziare a cercare la propria approvazione, senza più preoccuparsi di quella che proviene dall’esterno. La nostra felicità, infatti, dipende solo da noi.

Se desideriamo un cambiamento, questo deve necessariamente partire dall’interno.

Come facciamo a sentirci amati se noi per primi non amiamo noi stessi?

Se aumenta la stima e l’amore che nutriamo per la nostra persona, gradualmente le relazioni che instaureremo rispecchieranno questo cambiamento.

Per compiere questo passaggio occorre per così dire “genitorializzarsi”, cioè diventare genitori benevoli di se stessi, senza restare ancorati a quella approvazione che forse non c’è stata durante l’infanzia.

Cominciamo quindi a domandarci se approviamo noi stessi e quello che siamo e che facciamo nella nostra vita. Più che chiederci se gli altri ci accettano, rivolgiamo a noi stessi questi interrogativi:

Chi sono? cosa desidero per la mia vita?

Quando cominciamo a essere più consapevoli della persona che siamo, diventiamo più centrati e in contatto con i nostri bisogni e desideri. In questo modo gli altri inizieranno a rispettarci e amarci di più, proprio come facciamo con noi stessi.

La cura di sé

Il primo passo per allenare l’autostima è prendersi cura di sé. Iniziare a far caso a quanto tempo durante la giornata dedichiamo a noi e a ciò che ci fa stare bene. Può trattarsi anche di piccoli gesti quotidiani e brevi momenti di felicità, come ad esempio fare una passeggiata all’aria aperta, trascorrere del tempo con gli amici oppure dedicarsi a un hobby. Siamo tutti diversi e ognuno ha i suoi personali modi per stare bene. Occorre trovarli e ritagliarsi uno spazio e un tempo per coltivarli sempre di più.

Prendersi cura di se stessi significa volersi bene. Solo curandoci possiamo guarire le ferite del passato. La cura di sé ha un vero e proprio “effetto volano” sull’autostima.

Il prossimo appuntamento formativo si terrà sabato 18 maggio e sarà dedicato alla manipolazione affettiva.

 

Sibilla Ceccarelli – Coach, in collaborazione con PsicologheLab

Il narcisismo patologico.

narcisista

Il narcisismo patologico. Una giornata di formazione al Centro Antiviolenza Erize per sfatare i falsi miti sul narcisismo.

Lo scorso 13 aprile ha avuto luogo il secondo appuntamento formativo tenuto dalla Psicologa e Psicoterapeuta Rita Zumbo presso il centro Antiviolenza M. A. Erize sul narcisismo patologico.

Il termine “narcisista” è ormai entrato a far parte del linguaggio comune. Ma chi è davvero il narcisista patologico?

Per spiegare questo disturbo, ci viene in aiuto la mitologia.

 “Interrogato se Narciso sarebbe giunto a vedere una lunga avanzata vecchiaia, l’indovino rivelatore del fato aveva risposto: «Se non conoscerà se stesso».

Ovidio, Metamorfosi, 3: 339-510

Secondo la leggenda, questa è la profezia che venne fatta alla Ninfa Liriope sul futuro di suo figlio Narciso: la sua forza e la bellezza non si offuscheranno, finché non conoscerà se stesso.

La mitologia ci offre dei preziosi spunti per capire una delle caratteristiche principali del Narcisista patologico: la sua apparente forza risiede proprio nell’incapacità di conoscere e accettare le sue fragilità.

Il narcisista patologico, infatti, ha paura di “guardarsi allo specchio” e di vedere il suo lato ombra, perché questo potrebbe far crollare le sue sicurezze e provocargli una sofferenza che non è in grado di gestire.

Il Narcisista si crea quindi una corazza di ostentata grandiosità che gli impedisce di instaurare rapporti di autentica vicinanza e intimità con l’altro.

Narciso è incapace di amare qualcuno all’infuori di se stesso

Aprirsi all’altro significherebbe mettere in discussione il proprio modo di essere, correre il rischio di sentirsi fragile, di essere tradito o deluso e dunque, in definitiva, di soffrire.

Al polo opposto del Narcisista si trova il dipendente affettivo, rappresentato nel mito dalla Ninfa Eco.

Nello scenario descritto dalla leggenda, non resta molto spazio per la bella Eco che, innamoratasi di Narciso, arriva ad autodistruggersi per via dell’amore non corrisposto verso colui che vede solo se stesso.

Come spesso avviene nei miti, il finale è tragico.

I guai di Narciso iniziano nel momento in cui egli si innamora perdutamente della sua immagine, riflessa sull’acqua di un fiume. La leggenda narra che, una volta compreso che non avrebbe mai potuto coronare il suo amore verso la sua stessa immagine riflessa, Narciso si lasciò morire struggendosi inutilmente; si compiva così la profezia fatta a sua madre dall’indovino.

Chi è il narcisista patologico.

Potrà sembrare paradossale ma il bel Narciso, apparentemente così superbo e sicuro di sé, è in realtà estremamente fragile.

Quante volte ci è capitato di conoscere persone che mascherano la propria insicurezza dietro a un atteggiamento spavaldo e a castelli di bugie?

Contrariamente ai luoghi comuni, il “Narciso” di turno in cui può capitare di imbattersi nella propria vita, può essere sia un uomo che una donna.

Il narcisista patologico ha di solito queste caratteristiche:

  • non è empatico, cioè non riesce a mettersi nei panni dell’altro e per questo può arrivare anche a compiere atti malvagi, non rendendosi conto della sofferenza che genera (i comportamenti messi in atto possono andare dal fatto di non curarsi minimamente delle esigenze dell’altro fino agli atti più estremi quali la violenza e il femminicidio);
  • è spesso permaloso e non ama le critiche;
  • è un “attore dalle mille maschere”, che indossa per attirare la sua “preda” nelle prime fasi della conoscenza (può ad es. fingere di avere gli stessi interessi dell’altro e percepire quali sono i punti deboli su cui può fare leva per acquisire potere);
  • ha una carica energetica e vitale che affascina;
  • in genere tradisce nelle relazioni ed è solito mentire;
  • manipola la realtà e sfrutta le situazioni a suo vantaggio;
  • sminuisce continuamente il partner con continue critiche, facendolo sentire “sbagliato”.

 

“Non capisci mai niente”, “anche stavolta hai sbagliato”, “se sono arrabbiato/a è solo colpa tua”.

Chi ha avuto a che fare con un narcisista patologico almeno una volta nella vita, probabilmente si è sentito rivolgere ripetutamente affermazioni di questo tipo e conosce la diminuzione dell’autostima che nel lungo termine si finisce per sperimentare.

Il narcisismo patologico nasce da una sofferenza subita durante lo sviluppo, la cosiddetta “ferita narcisistica”.

Il narcisista non è stato in grado di accettare la sofferenza di sentirsi in qualche modo disapprovato e umiliato dalle sue figure di accudimento durante l’infanzia. Questo ha fatto sì che egli sia rimasto ancorato a una fase infantile dello sviluppo della sua personalità.

Intorno a questa fragilità, si è costruito un’impalcatura di difesa che gli permette di evitare la sofferenza di sentirsi disapprovato e non amato. Si protegge nutrendo il suo ego e circondandosi di persone che gli garantiscano continue conferme. Ogni critica, infatti, sarebbe una ferita difficile da rimarginare.

Per evitare di sentirsi fragile, il Narcisista patologico si erge a “giudice della vita” ed evita di entrare in contatto con la sua emotività e con quella altrui.

La manipolazione affettiva e i suoi segnali

La manipolazione affettiva che mette in atto il narcisista patologico verso il partner è una sorta di passo a due, ballato da due persone con caratteristiche complementari. Uno dei due, il manipolatore, ha bisogno di mantenere il controllo e l’altra, la vittima, ha una forte necessità di fusione e approvazione, che la porta a permettere al manipolatore di ridefinire la sua realtà.

Alla base della manipolazione c’è un ricatto affettivo:

“per essere amata/o da me devi essere in un certo modo”.

Spesso, chi è vittima di manipolazione affettiva da parte di un narcisista, presenta questi segni:

  • Ha scarsa fiducia nella propria capacità di percepire la realtà e dunque una sensazione di confusione;
  • riporta sintomi ansiosi (disturbi gastrici, attacchi di panico ecc.);
  • ha incubi o sogni inquietanti ricorrenti;
  • avverte timore, agitazione o stress quando è in presenza del manipolatore;
  • sperimenta frustrazione e sente compromessa la sua dignità;
  • avverte tristezza che può anche sfociare in vera e propria depressione;
  • prova rabbia.

 

Nei casi in cui si è vittima di manipolazione affettiva non sempre è facile capire che l’origine di questa sofferenza sia proprio la relazione. Il fatto di iniziare a cogliere questi segnali ascoltandosi di più, può essere il primo passo per fare chiarezza e individuare il problema.

Il narcisista e il dipendente affettivo: cosa hanno in comune?

Eco e Narciso, nonostante siano i poli opposti dell’amore patologico, sono uniti da un comune destino, quello della solitudine. Per solitudine non intendo quella di chi non riesce a instaurare o a mantenere un rapporto con il partner, ma la sensazione di vuoto data dalla mancanza di una reale connessione affettiva con l’altro. Ci si può sentire infatti profondamente soli pur essendo in coppia.

Sia la persona narcisista che il dipendente affettivo sono per così dire “ciechi”: Il narcisista non vede altro che se stesso mentre il dipendente vede solo l’altro e le sue esigenze ma non ha consapevolezza della sua identità, dei suoi bisogni e desideri.

Narciso tiene fuori dalla sua affettività il resto del mondo, mentre il dipendente affettivo esiste solo in funzione di ciò che prova per l’altro.

Per Eco e Narciso quindi è davvero impossibile amarsi. Sono come due binari paralleli; seppur vicini non possono incontrarsi.

Ciò che crea un’irresistibile attrazione e li lega l’un l’altro è proprio la loro caratteristica comune: la mancanza di autostima.

L’attrazione fatale tra Eco e Narciso

Perché il dipendente affettivo e il narcisista sono in grado di riconoscersi tra milioni di persone ed attrarsi come calamite?

Dipendente affettivo: “Io ti farò sentire amato/a e ti venererò fino ad annullare me stessa/o.

Narcisista: “Io colmerò il tuo senso di vuoto e la paura di essere abbandonata/o”.

 

Queste in sostanza sono le promesse implicite che si scambiano i due, fin dalle prime fasi della conoscenza.

Contrariamente ai luoghi comuni sull’argomento, non è solo il narcisista a “usare” il dipendente per i suoi fini, ma è vero anche il contrario.

Entrambi sono allo stesso tempo manipolatori affettivi e dipendenti.

Anche il manipolatore è in una posizione di dipendenza, visto che ha bisogno dell’altro per nutrire il suo ego.

Dalla consapevolezza alla libertà

Quando in ogni relazione d’amore finiamo con l’interpretare un ruolo fisso, che si tratti di quello della persona che si annulla per amore o di chi è freddo e sfuggente, stiamo rinunciando alla nostra libertà di scelta e annullando le caratteristiche che rendono ognuno di noi unico e speciale.

La base di una relazione sana, invece, è proprio la flessibilità.

Il primo passo per uscire da queste dinamiche rigide è acquisirne consapevolezza.

Nel momento in cui diventiamo consapevoli della nostra responsabilità rispetto alle esperienze negative del passato, smettiamo di percepirci come vittime e ci riappropriamo del nostro potere personale.

Ed è allora che siamo finalmente in grado di lavorare su noi stessi per diventare artefici di un cambiamento positivo in noi. Solo a quel punto possiamo accedere alle nostre risorse personali e far sì che le esperienze passate non ci condizionino all’infinito.

Il prossimo incontro al centro Erize si terrà il 4 maggio e verterà proprio su quello che è il tema  chiave per superare sia il narcisismo che la dipendenza affettiva: l’autostima.

Sibilla Ceccarelli – Coach, in collaborazione con Psicologhelab

La dipendenza affettiva spiegata attraverso il mito della Ninfa Eco.

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La dipendenza affettiva spiegata attraverso il mito della Ninfa Eco. Una giornata di formazione al Centro Antiviolenza Erize per guardarsi dentro e riconoscere, con ironia e amore verso se stesse, le proprie fragilità e le risorse per affrontarle.

Lo scorso 23 marzo, la Psicologa e Psicoterapeuta Rita Zumbo ha tenuto un interessate seminario esperienziale presso il centro antiviolenza M. A. Erize sulla dipendenza affettiva.

La giornata è iniziata con il racconto del mito di Eco e Narciso. La mitologia ha offerto preziosi spunti per spiegare in modo semplice e intuitivo fenomeni complessi come i disturbi della sfera affettiva.

Il mito narra la storia del bel Narciso, iperprotetto dalla madre e incapace di amare qualcuno all’infuori di se stesso e della Ninfa Eco, innamoratasi perdutamente di lui, che si autodistrugge fino a perdere la potenza della sua bella voce a forza di invocare colui che non vuole affatto ascoltarla.

Eco e Narciso, per paradosso, sono due facce della stessa medaglia. Entrambi sono simboli eterni dell’incapacità di amare davvero, di raggiungere una profonda intimità con il partner, di vedere l’altro per la persona che è realmente, con pregi e difetti.

La Ninfa Eco e La dipendenza affettiva

La Ninfa Eco ritrae fedelmente la figura del dipendente affettivo.

Nel mito, la bella Eco arriva quasi a perdere la voce dopo aver invocato a lungo e invano Narciso, di cui era follemente innamorata, che non aveva in realtà nessun interesse ad ascoltarla.

La mitologia offre un’efficace metafora per descrivere quelle relazioni in cui un uomo o una donna cercano disperatamente la considerazione e l’amore del partner, il quale invece è troppo preso da se stesso per accorgersi di loro.

Con la flebile voce che le resta, Eco è in grado solo di ripetere (l’ultima parte di) ciò che dice l’altro, ma non può più far sentire la propria voce.

L’esito della dipendenza affettiva è dunque l’accondiscendenza e l’asservimento completo al partner. Il prezzo da pagare per ricevere sicurezza affettiva però è molto alto: occorre rinunciare alla propria identità e sacrificarla in nome di un amore che genera sofferenza.

“Non merito di essere amato”. Ecco la convinzione che condiziona la vita sentimentale del dipendente affettivo.

L’insicurezza di chi sviluppa una dipendenza affettiva nasce generalmente da una mancanza di amore, di una base affettiva sicura, che ha caratterizzato il periodo dell’infanzia. Le ragioni per cui il dipendente affettivo non si è sentito abbastanza amato possono essere molteplici: casi di abusi psicologici da parte di genitori alcolisti o tossicodipendenti, madri affettivamente assenti perché alle prese con lutti familiari o con problemi di depressione ecc.

Per sopperire alla mancanza di affetto vissuta, il dipendente affettivo tende a iper responsabilizzarsi. Cerca disperatamente di guadagnare amore facendosi in quattro per gli altri e dimostrandosi disponibile e compiacente. Generalmente ha difficoltà a gestire le proprie emozioni da cui a volte si sente sovrastato e necessita di continue conferme da parte degli altri.

Il dipendente affettivo porta con sé un fardello fatto di senso di inadeguatezza e paura di essere abbandonato, essendo convinto nel profondo di non essere degno d’amore. Per questo motivo, avverte la perenne urgenza di colmare un vuoto, anche a costo di accontentarsi delle “briciole” e di adattarsi a partner anaffettivi.

Il dipendente affettivo, pur di evitare la sofferenza della non amabilità e l’abbandono, può in certi casi arrivare a tollerare forme di violenza psicologica o fisica da parte del partner.

Quando si è dipendenti a livello affettivo si è costantemente focalizzati sui bisogni dell’altro, che si cerca di accontentare fino al punto di sacrificare se stessi e la propria felicità.

Eppure, il fatto di poter dare a qualcun altro quell’amore che non si nutre per se stessi è solo un’illusione. Come si può dare ad altri ciò che non si ha?

Contrariamente ai luoghi comuni sull’argomento, nelle relazioni interessate dalle dinamiche di narcisismo e dipendenza affettiva non esiste una netta distinzione tra “buoni” e “cattivi” o tra “vittima” e “carnefice”. Mentre la dipendente affettiva Eco viene manipolata dal Narcisista, a sua volta “utilizza” quest’ultimo in modo strumentale alla soddisfazione del suo bisogno di colmare un vuoto affettivo e allontanare la paura dell’abbandono.

Abbandonare i “copioni” per diventare libere

È stato interessante scoprire come tratti di narcisismo e di dipendenza affettiva siano presenti in ognuno di noi e come questo sia perfettamente normale e fisiologico.

Può accadere però di scoprirci a interpretare in ogni relazione d’amore un ruolo rigido e immutabile, quello della persona sensibile ed empatica, vittima di un partner freddo e distaccato.

La ricorrenza delle stesse dinamiche all’interno di ogni relazione vissuta non può essere casuale, ma dipende senz’altro dai nostri pensieri e comportamenti.

Il primo passo per smettere di identificarsi con un ruolo fisso che ci intrappola in una serie di storie disfunzionali è quello di diventarne consapevoli.

Troppo spesso, quando la fine di una relazione porta con sé una grande sofferenza, si tende a voler capire a tutti i costi le motivazioni che hanno indotto il partner a comportarsi in un determinato modo.

Se si ha una bassa autostima, poi, si tende a pensare a se stessi solo in termini negativi, cercando di rintracciare quali sono stati gli errori che hanno portato a quell’epilogo.

Per smettere i panni della Ninfa Eco, occorre invece spostare la propria attenzione dall’altro per rivolgerla in modo amorevole verso noi stesse.

Per imparare a prenderci cura di noi, occorre cominciare a porci alcuni interrogativi a cui probabilmente all’inizio non sarà facile dare una risposta. Se per lungo tempo ci si è preoccupati solo delle esigenze dell’altro, vuol dire che probabilmente non si è molto abituati a interrogarsi su quale sia il proprio bene.

Cos’è che ci rende felici? Qual è il nostro progetto di vita? Quali sono i nostri punti di forza che ci rendono persone uniche e speciali?

Nel momento in cui riscopriamo la nostra identità, diventiamo consapevoli delle risorse su cui possiamo contare per trarre dalla sofferenza nuova forza e saggezza.

Il prossimo appuntamento formativo si terrà il 13 aprile e sarà dedicato al narcisismo.

La giornata di formazione al Centro antiviolenza M. A. Erize è stata permeata da un clima di sorellanza e di profonda umanità. È stato bello conoscere tante donne coraggiose e desiderose di mettersi in gioco per crescere insieme.

Sibilla Ceccarelli – Coach, in collaborazione con PsicologheLab

 

Essere donne oggi

le donne

Essere donne oggi. La vera sfida per le donne è quella di diventare consapevoli del proprio valore e svolgere un ruolo di guida attraverso un periodo di profondi cambiamenti.

Essere buone, belle e brave. Questo è l’imperativo che spinge le donne fin da piccole a mettersi in discussione, a migliorare costantemente superando i loro limiti, a essere attente ai bisogni dell’altro. Spesso, purtroppo, il prezzo di questa tensione alla perfezione è molto alto. Tanto alto da fargli perdere di vista chi sono davvero, nel tentativo di conformarsi alle aspettative degli altri.

Per molte donne l’amore incondizionato verso se stesse non è affatto scontato. É una conquista che arriva al termine di un percorso di evoluzione personale.

“Merito davvero di essere amata?”

Spesso questo interrogativo inconscio è cruciale nella vita di una donna. La risposta – altrettanto inconsapevole –  influenza in modo determinante la sua vita e le sue relazioni.

“Quando sarò abbastanza magra, quando sarò abbastanza brava… solo allora sarò meritevole di essere amata”.

Convinzioni di questo tipo sono delle vere e proprie zavorre che rallentano il cammino verso la nostra realizzazione personale e ci allontanano dalla felicità.

Quando non percepiamo il valore che nasce dalla nostra unicità ed esiste a prescindere dai riconoscimenti esterni, facciamo entrare una grande sofferenza della nostra vita.

Cominciamo a dubitare di essere “abbastanza” in ogni ambito della nostra vita e diventiamo schiave dell’approvazione altrui, rinunciando di fatto alla nostra libertà.

Questa insicurezza si riflette negativamente non solo nelle relazioni ma anche in ambito lavorativo. Ci può portare ad accettare compromessi sul lavoro, a giustificare un uomo che non ci rispetta o che addirittura compie atti di violenza fisica o psicologica, a trascurare la cura di noi stesse, a portare avanti una relazione solo per paura della solitudine o a mettere da parte i nostri sogni perché crediamo di non essere all’altezza di farli diventare realtà.

Dal movimento di denuncia #wetoo ai casi di femminicidio, i fatti di cronaca ci raccontano della difficoltà che spesso le donne incontrano nel denunciare episodi di violenza o molestie sessuali. Il cattivo consigliere in questi casi non è solo la scarsa autostima ma anche il senso di colpa che spesso la accompagna.

“La colpa è mia che l’ho provocato… la colpa è mia che non sono stata in grado di fermarlo… se lo lascio soffrirà”.

Quando una donna non si sente meritevole di essere amata, tende a colpevolizzarsi rispetto a ciò che le accade di negativo, come se tutto dipendesse da lei.

Del resto anche una parte dell’opinione pubblica, nei casi di moleste sessuali, finisce per puntare il dito contro l’abbigliamento troppo provocante della malcapitata. Altre volte, come nel caso Weinstein, per minimizzare si fa leva sui presunti benefìci che la vittima avrebbe ottenuto in cambio del suo silenzio.

Da cosa nasce questa difficoltà delle donne nel percepire il proprio valore?

I retaggi della cultura patriarcale che relegava le donne al ruolo di “angelo del focolare” influenzano ancora oggi l’educazione che le bambine ricevono dalla famiglia ma soprattutto dalla società.

Il più delle volte alcuni messaggi vengono trasmessi in modo implicito e inconsapevole. Fin da piccole le donne si abituano a essere attente ai bisogni dell’altro e a dedicarsi alla sua cura. Si convincono che la realizzazione personale debba passare necessariamente per il matrimonio o i figli e che il fatto di restare nubili oltre una certa età sia sinonimo di fallimento e solitudine.

Quando lo scenario auspicato per le donne dalla società non si realizza, subentra facilmente il senso di colpa e questa situazione di “scarto dal modello” viene vissuta come un fallimento personale.

Quando una donna non ha un profondo rispetto per se stessa, non è in grado di esigerlo dagli altri. Se una donna non si ama così com’è, tende a idealizzare chiunque lo faccia al posto suo, fino ad arrivare a giustificarlo laddove le faccia del male.

“Se ti ama troppo non ti ama affatto.

I luoghi comuni legittimano la violenza. Liberatene”

Slogan della Giornata internazionale per la liberazione della violenza sulle donne

La mancanza di autostima e la conseguente tendenza a colpevolizzarsi sono sicuramente degli ostacoli nel percorso di realizzazione di una donna.

Eppure ciò che allontana di più le donne dalla loro felicità è una convinzione più subdola ma profondamente radicata nella cultura della nostra società: l’etica del sacrificio.

Spesso le donne tendono a credere che sia possibile far felice chi amano abdicando alla loro felicità. L’amore per l’altro quindi segna una rinuncia all’amore verso se stessi. Si impara a stare male in nome di un presunto bene di coloro che si amano.

È un esempio di questa concezione di amore quello di una madre che metta completamente da parte il suo bene e la cura di sé per il proprio figlio. In questo modo la donna diventerà infelice e finirà per coltivare sentimenti di rassegnazione o di rancore verso la vita. L’insoddisfazione della madre finirà inevitabilmente per pesare sul bambino.

Il fatto che sia possibile ottenere il bene dell’altro senza occuparsi del proprio è un’illusione che porta molta sofferenza nella nostra vita. In realtà è vero il contrario: è possibile fare del bene agli altri solo se si sta bene. La nostra felicità e quella degli altri sono strettamente connesse e l’una non può prescindere dall’altra.

La sfida delle donne

La grande sfida che il nuovo millennio pone alle donne è quella di trasformare il problema di mancata consapevolezza del proprio valore in un obiettivo di sviluppo.

La sensibilità che caratterizza ogni donna che è in grado di mettersi nei panni dell’altro per proteggerlo, se correttamente utilizzata, è una grande risorsa.

Proprio partendo dalla scoperta dei propri punti di forza, la donna è chiamata, per le sue doti innate che la rendono particolarmente idonea alla protezione della vita, ad accompagnare coloro che ama attraverso un periodo storico di cambiamenti rapidi e profondi svolgendo un ruolo di guida. E tutto ciò senza rinunciare alla propria realizzazione, perché la sua felicità non può che andare in parallelo con quella dei suoi affetti.

Sibilla Ceccarelli 

Il dialogo interiore

dialogo interiore

Il dialogo interiore. Ciò che ripetiamo a noi stessi condiziona il modo di affrontare le circostanze. Vediamo come orientarlo al nostro benessere.

Che dialogo interiore intratteniamo con noi stessi? In che modo ci giudichiamo?
E ancora: ne siamo consapevoli?

La nostra voce interiore ci accompagna costantemente durante la giornata. È come un rumore di sottofondo fatto di valutazioni e giudizi che riguardano non solo le persone e le situazioni con cui ci confrontiamo, ma anche noi stessi e la nostra performance in ogni ambito.

Il modo in cui parliamo a noi stessi, in particolare, è fondamentale e cambia la prospettiva da cui vediamo le cose e quindi anche i comportamenti che assumiamo per affrontare le situazioni che ci presenta la vita.

Non sempre però i messaggi che rivolgiamo alla nostra persona sono positivi. In alcuni casi è come se nella nostra mente ci fosse un giudice severo che punta continuamente il dito contro di noi svalutandoci. Ė questo giudice interno che interviene quando ci sentiamo inadeguati o sbagliati.

“Che stupido”. “Non sono in grado”.“Ho sbagliato anche stavolta”.

Ti capita spesso di ripeterti frasi del genere?

Ebbene, vuol dire che il tuo dialogo interno non è funzionale al raggiungimento dei tuoi obiettivi e ti sta impedendo di essere felice. Ciò che può davvero renderci felici e soddisfatti della nostra vita infatti sono i nostri pensieri. La buona notizia però è che con un po’ di allenamento siamo in grado di cambiarli.

Il dialogo interno, del resto, gioca un ruolo determinante anche nell’ambito della performance sportiva. In questi casi è fondamentale focalizzare l’attenzione sui gesti tecnici e restare nel momento presente, invece di spostare l’attenzione sul giudizio relativo alla propria performance e sul futuro.

“Il modo in cui giochiamo il nostro gioco interiore spesso fa la differenza tra il nostro successo o insuccesso.”

Timothy Gallwey

Parlare a noi stessi in modo ipercritico invece che da alleati è una vera e propria zavorra che ci appesantisce e ci rallenta in tutti gli ambiti della nostra vita.

Se diciamo a noi stessi che abbiamo fallito, penseremo automaticamente di essere dei falliti e sentiremo nel profondo di non valere nulla. Questo innescherà un meccanismo che ci predisporrà a trovare la conferma di questa evidenza nella realtà e, oltretutto, renderà invisibili ai nostri occhi tutte quelle circostanze che condurrebbero alla conclusione opposta.

Osservarsi in maniera troppo rigida impedisce di vedere nuove parti di noi stessi che stanno emergendo, cambiando e migliorando. Se ci atteggiamo a critici inflessibili di noi stessi finiremo per sminuire il valore dei progressi fatti. Ci sentiremo sempre al punto di partenza, malgrado l’impegno.

Al contrario, se cominciamo a parlare a noi stessi in modo più indulgente, riusciremo a vedere ogni eventuale errore come una lezione invece che come un fallimento.

Partiamo dalla consapevolezza

Il punto è che spesso non riconosciamo affatto la presenza del nostro dialogo interno.

Finché non diventeremo consapevoli della sua esistenza e del contenuto dei suoi messaggi, aderiremo acriticamente ai suoi giudizi negativi. Finiremo quindi per identificarci con essi. Nel momento in cui cominceremo a riconoscerlo, potremo comprendere che di tratta solo di una parte di noi e che non c’è nulla di oggettivo nei suoi giudizi. Sono semplici opinioni e come tali perfettamente contestabili.

Provate a prestare attenzione al vostro dialogo interiore quando assume connotati negativi. Vi suona familiare? Spesso ripete giudizi negativi che qualcuno per noi importante ci ha indirizzato in passato e che abbiamo interiorizzato.

Anche se alcuni pensieri negativi trovano origine nel nostro passato, oggi possiamo cominciare ad adottare nei nostri confronti un atteggiamento più costruttivo. In questo risiede la nostra libertà di scelta.

Se ciò che il nostro giudice interno ci ripete sta limitando la nostra vita, possiamo infatti decidere di non aderirvi e allenarci a vedere noi stessi in una chiave più positiva.

Allenamenti per un dialogo interno più costruttivo

Vi propongo questo esercizio per lavorare sul parlare bene a voi stessi: prestate attenzione al modo in cui parlate a voi stessi durante la giornata e appuntate ciò che vi ripetete in un diario. Segnate su una colonna tutte le volte in cui vi siete parlati da alleati. Segnate invece sull’altra colonna tutte le volte in cui vi siete atteggiati a critici spietati di voi stessi. Nel primo e nel secondo caso che frasi vi siete rivolti? Come vi siete sentiti?

Noterete che, quando vi parlate da alleato, le cose funzionano meglio anche quando non sono proprio positive. Perché allora non provare ad aumentare la frequenza delle volte in cui trattiamo noi stessi in modo più costruttivo?  Si tratta del primo passo per avere successo in tutti gli ambiti.

In altre parole, possiamo scegliere la persona che vogliamo essere scegliendo di rivolgere a noi stessi quei messaggi che hanno l’effetto di espandere la nostra vita e renderci liberi di esprimere la nostra essenza e unicità.

Soprattutto all’inizio non è facile ma questa è l’unica strada per liberare il nostro potenziale e vivere la vita che desideriamo per noi.

Sibilla Ceccarelli – Coach

Per info: sibilla@coach2coach.it

Quattro abitudini negative che ci impediscono di raggiungere i nostri obiettivi.

abitudini negative

Quattro abitudini negative che ci impediscono di raggiungere i nostri obiettivi. Vediamo perché queste quattro abitudini possono portarci a rinunciare ai nostri sogni.

Che si tratti dell’obiettivo di perdere peso o di quello di migliorare le nostre relazioni familiari, ogni cambiamento durevole nella nostra vita è frutto di allenamento, costanza e una buona dose di autodisciplina. Se la nostra meta fosse appunto quella di dimagrire, per raggiungerla dovremo chiaramente mettere in atto dei comportamenti che siano funzionali ad ottenere quel risultato.

“L’autodisciplina è una delle principali radici del successo”

Daniel Goleman

Eppure a volte l’intenzione di cambiare e la forza di volontà che sorregge tale proposito possono non bastare.

Sulla base della mia esperienza personale e di ciò che riscontro nel mio lavoro di Coach, ho notato che esistono delle abitudini che, se presenti, hanno il potere di vanificare tutto il lavoro fatto in vista di un obiettivo. Si tratta di veri e propri indicatori, praticamente certi, del fallimento del nostro proposito.

Queste abitudini hanno infatti il potere di rendere il nostro impegno e gli sforzi compiuti privi di effetto. In molti casi ci possono portare a rinunciare definitivamente ai nostri desideri.

Torniamo all’esempio dell’obiettivo di dimagrire. Mettiamo il caso di essere riusciti ad osservare per un po’ di tempo una dieta ipocalorica senza “sgarrare” ma che, nonostante ciò, si vedano ancora pochi risultati sulla bilancia.

In questo caso potremmo cominciare a dubitare di riuscire davvero a perdere peso grazie al regime alimentare che stiamo seguendo con tanti sacrifici. Magari arriveremmo alla conclusione che se finora non siamo riusciti a raggiungere il nostro obiettivo di peso, non ci riusciremo mai. Potremmo addirittura convincerci che le diete funzionino per gli altri ma non per noi! Insomma, il fatto che risultati più consistenti tardino ad arrivare, potrebbe portare alcuni di noi a scoraggiarsi e ad abbandonare l’obiettivo.

Ecco appunto la prima abitudine che ha l’effetto di sabotare i nostri progetti.

1. Volere tutto e subito senza valorizzare il raggiungimento delle tappe intermedie.

A volte, mentre stiamo percorrendo la strada che ci porta al nostro obiettivo, ci dimentichiamo completamente della situazione da cui siamo partiti e ci concentriamo solo su quanto ancora manca alla meta. Manteniamo il focus solo sullo scarto della situazione attuale rispetto a quella desiderata e non consideriamo i progressi fatti finora. Ciò che abbiamo raggiunto non ci sembra mai abbastanza. In sostanza è come se stessimo scalando una montagna e, anziché essere consapevoli e apprezzare di essere arrivati a buon punto, guardassimo solo la vetta lamentandoci di non averla ancora raggiunta.

Questa abitudine di ragionare “in scarsità” ci mette addosso un’eccessiva pressione che ha l’effetto controproducente di portarci a fuggire dall’obiettivo. In questi casi, infatti, la sfida intrapresa viene vissuta con un carico di stress difficile da sostenere. Al contrario, quando iniziamo a celebrare i successi finora portati a casa, sperimentiamo emozioni positive che innescano un circolo virtuoso che faciliterà il resto del percorso.

2. Essere perfezionisti: “O la perfezione o niente”.

Come dicevano le nostre nonne, “il bene è nemico del meglio”. Ma siamo sicuri che il detto sia sempre valido?

In certi casi, la ricerca della perfezione nello svolgimento delle attività necessarie a raggiungere un obiettivo, può rallentarci enormemente. Nei casi più estremi, il perfezionismo può essere del tutto paralizzante e portarci a rinunciare all’obiettivo. Quando ci poniamo di fronte a una qualsiasi attività perseguendo un ideale di perfezione, diventiamo eccessivamente preoccupati di non commettere errori. Il nostro pensiero oscilla tra due poli opposti: tutto o niente. Ci convinciamo che se non possiamo raggiungere la perfezione sia meglio rinunciare a tutto. A volte, invece, per raggiungere obiettivi a lungo termine occorre mantenere una visione di insieme che ci permetta di superare eventuali errori e cadute, ridimensionandole nell’ottica del percorso nel suo complesso. In sostanza, se anche si compiono degli errori, l’importante è rimettersi presto in carreggiata e non perdersi d’animo buttando all’aria il lavoro svolto fino a quel momento.

Tornando al nostro esempio, se in una giornata non riusciamo a fare a meno di “sgarrare” dalla dieta, questo non vuol dire che tale situazione possa compromettere del tutto l’obiettivo. In questi casi non serve a nulla colpevolizzarsi rispetto all’accaduto. L’essenziale è essere flessibili in modo tale da correggere il tiro e accettare che anche momenti del genere siano parte del percorso. In sostanza si tratta di preferire la perseveranza alla perfezione.

3. Sottovalutare l’impegno necessario.

Appena si decide di perseguire un obiettivo, ci si fa un’idea di massima dell’impegno e dei sacrifici da affrontare. Non sempre però siamo davvero pronti ad investire le energie necessarie al suo raggiungimento né ad affrontare quelle piccole o grandi rinunce che ne conseguono. A volte ci illudiamo che l’obiettivo possa essere raggiunto facilmente non cambiando di una virgola il nostro stile di vita, salvo poi stupirci e piangerci addosso per essere ancora lontani dalla meta. È inevitabile che in questi casi subentri la frustrazione. In realtà, qualunque cambiamento nella nostra vita destinato a durare presuppone impegno e volontà di mettersi in discussione. Occorre quindi fermarsi un secondo e chiedere a noi stessi con sincerità quanto impegno ed energia siamo davvero disposti a investire per realizzare i nostri desideri.

4. Paragonarsi agli altri: “l’erba del vicino è sempre più verde”.

Nessuno dall’esterno può davvero conoscere l’impegno e i sacrifici vissuti dalle persone che sono riuscite a realizzare i propri sogni. Dalla nostra prospettiva possiamo percepire solo la parte più superficiale della vita di chi ci circonda, come se si trattasse della punta di un iceberg. E allora a quanto può servire paragonare la nostra situazione alla loro?

Il fatto di paragonarci agli altri senza essere nei loro panni e conoscere davvero la loro storia, può condurci a una visione falsata della realtà. Potrebbe apparire ai nostri occhi che gli altri ottengano tutto facilmente e senza sforzo, mentre noi siamo gli unici che, malgrado l’impegno, non arrivano a risultati soddisfacenti. Appare evidente come questa prospettiva, oltre ad essere frutto di una visione distorta della realtà, risulti frustrante e diminuisca il nostro livello di autostima.

“È impossibile risolvere un problema con la stessa mentalità che lo ha creato”

Albert Einstein

Se ravvisi una o più di queste abitudini nei tuoi comportamenti, prova a fermarti e fai un bel respiro. Prova a domandarti: “Che cosa posso fare di diverso rispetto a quello che ho fatto finora e che possa condurmi a migliori risultati?” è evidente infatti che i tuoi pensieri e i tuoi comportamenti, che ormai si sono cristallizzati in abitudini, stanno limitando il tuo potenziale. Occorre quindi che tu riconosca quelle che costituiscono abitudini disfunzionali e che cominci ad allenarti a sostituirle con pensieri e comportamenti che possano favorire il raggiungimento dei tuoi obiettivi.

Sibilla Ceccarelli – Coach

Per info: sibilla@coach2coach.it

Autostima e vero sé

autostima

Autostima e vero sé: allena l’autostima vivendo in armonia con la tua parte più autentica e realizzandoti in un progetto di vita che valorizzi la tua unicità.

“Tanto non ce la faccio”, “Non riesco a decidermi”, “Cosa penseranno di me?”

Ti capita spesso di sentire dentro di te una voce che ripete frasi del genere? Ebbene, probabilmente la tua autostima necessita di essere allenata.

Magari da bambino sapevi perfettamente che lavoro avresti voluto fare da grande, dove avresti voluto vivere e che tipo di famiglia ti sarebbe piaciuta. Poi crescendo hai iniziato a dubitare di te stesso e della bontà dei tuoi desideri e inclinazioni. In famiglia, a scuola e gli amici hanno incominciato a dirti che “il liceo classico ti apre la mente” nonostante la tua passione fosse la matematica, che “il posto fisso ti dà più tutele”  e che “i figli vanno fatti prima dei 35 anni”.

In altre parole, i modelli e i precetti che ti venivano proposti dall’esterno hanno iniziato a condizionare le tue scelte in ogni ambito della tua vita (quello professionale, delle relazioni ecc.). Gradualmente e senza neanche accorgertene, hai iniziato a infilare i tuoi sogni in un cassetto impolverato buttando via la chiave.

Senso di smarrimento e frustrazione

Magari oggi “sulla carta” hai tutto quello che la società ti spinge a desiderare: una casa, un lavoro, una famiglia ecc. Tuttavia sperimenti un senso di smarrimento e frustrazione. Malgrado tutto non ti senti pienamente realizzato e soddisfatto della tua vita.

Ti sei lasciato trascinare dalla corrente lasciando che fossero i tuoi cari, la società o la paura del futuro a scegliere per te. Hai intrapreso strade già battute senza avventurarti a trovare il tuo personale sentiero. Hai rinunciato a intraprendere quelle scelte che ti avrebbero permesso di esprimere e valorizzare la tua unicità consentendoti di essere felice.

Il vero sé

Per uniformarti alle aspettative ed essere accettato dagli altri probabilmente ti sei allontanato dal tuo vero sé. 

Il vero sé è tua parte più autentica, la tua fonte di saggezza interiore che ti spinge a perseguire ciò ti rende felice in ogni aspetto della tua vita.

Forse hai rinunciato a seguire la tua vocazione lavorativa perché pensavi che non ci fosse richiesta per quel ruolo sul mercato. Oppure hai lasciato quel partner di cui eri innamorato perché non rispondeva alle aspettative della tua famiglia. In breve hai abdicato a ciò che ti rendeva felice in nome della paura, delle aspettative altrui, della voglia di certezze ecc. A mano a mano hai disimparato ad ascoltare le istanze della tua anima.

In fondo non c’è nulla di male a voler evitare di rischiare. Ma che prezzo ha questa apparente sicurezza? Cosa hai sacrificato in nome dell’approvazione altrui?

Hai perso lungo la strada la tua originalità. Nel tentativo di conformarti a modelli imposti dalla società e dai mass media, hai rinunciato ad autorealizzarti in ogni ambito della tua vita coltivando e valorizzando gli aspetti di te che ti rendono unico. E questo ha avuto un impatto negativo sulla tua autostima.

Si è innescato un circolo vizioso: più cerchi di uniformarti ai modelli imposti dall’esterno e più la tua autostima decresce.

Oggi ti senti vulnerabile ai giudizi e ai desideri degli altri e ti sembra di non riuscire ad esprimere a pieno  la tua personalità. La capacità di autorealizzarti grazie alla piena espressione delle tue potenzialità è in crisi. Pertanto, il livello di autostima continua ad abbassarsi.

Hai la libertà di scelta ma non sai più usarla per individuare un progetto di vita che rispecchi la tua unicità.

Cosa ti rende felice?

Se vuoi vivere e non “sopravvivere”, occorre che delini il tuo progetto di vita tenendo conto delle istanze del tuo vero sé. In altre parole, le decisioni strategiche che riguardano gli aspetti principali della tua vita devono consentirti di valorizzare la tua unicità ed esprimere a pieno le tue potenzialità.

Se questo non avviene la sensazione che sperimenti è quella di perenne insoddisfazione e apatia senza che apparentemente  ci sia un buon motivo.

Se è da molto tempo che non ascolti più la tua voce interiore e non sei connesso con i tuoi desideri più autentici potresti incontrare difficoltà a percepire cos’è che ti rende davvero felice.

Spesso infatti accade che sappiamo perfettamente cosa non vogliamo nella nostra vita, dal traffico a un lavoro che non ci soddisfa, ma non abbiamo più idea di cosa desideriamo davvero.

Per sintonizzarti con il tuo nucleo originario prova a riscoprire cosa ti piace, cosa ti fa stare bene e quali sono i tuoi valori.

Presta attenzione ai momenti in cui all’interno della giornata ti senti più in armonia con te stesso. Quando avvengono? Mentre fai una camminata la mattina andando a lavoro? nel momento in cui trascorri una serata con gli amici? Ricomincia a prenderti cura di te ritagliando più spazio a questi momenti di ordinario benessere.

Inizia a coltivare le passioni che magari hai abbandonato, a prescindere se possano avere o meno uno sbocco lavorativo.

Esprimi le tue potenzialità

Una delle principali  cause della mancanza di autostima è la scarsa consapevolezza dei propri punti di forza.

La società fin da bambini ci mette al corrente solo dei nostri difetti. A scuola, in famiglia, a lavoro ecc., si tende a mantenere il focus su ciò che non va. Per questo finiamo per conoscere perfettamente ogni nostro limite, reale o presunto tale, ma non abbiamo consapevolezza delle nostre potenzialità.

L’autostima invece nasce proprio dalla consapevolezza dei propri punti di forza e della possibilità di raggiungere i nostri obiettivi grazie ad essi.

Ad esempio, se Bebe Vio si fosse concentrata su tutto quello che non poteva fare per via della sua menomazione probabilmente non sarebbe mai diventata una grande atleta paralimpica. Per raggiungere grandi risultati ha  invece valorizzato quelli che sono i suoi punti di forza come ad es. la determinazione e la perseveranza.

E tu conosci le tue potenzialità? Riesci ad esprimerle a pieno sul lavoro e nelle tue relazioni?

Una delle caratteristiche delle potenzialità è quella di generare grande soddisfazione nel momento della loro espressione e, viceversa, un terribile senso di malessere nel caso in cui risultino frustrate.

Probabilmente in questo momento hai una serie di potenzialità che non trovano spazio adeguato nella tua vita e questo può generarti un disagio. Ad esempio, se hai grandi doti di intelligenza sociale e gentilezza ma il tuo lavoro ti costringe a stare tutto il giorno da solo davanti a un pc questo potrebbe portare a sentirti frustrata e insoddisfatta.

Per incrementare la tua autostima e delineare obiettivi in linea con il tuo vero sé occorre riscoprire le tue potenzialità e trovare il modo di allenarle in ogni campo della tua vita.

Delinea un progetto di vita in armonia con il vero sé

Esplorata la tua concezione di felicità e le tue potenzialità, potrai individuare una serie di obiettivi nelle varie sfere della tua vita che siano in armonia con la tua parte più autentica.

Non deve necessariamente trattarsi di un cambio radicale di vita. Non si tratta di lasciare il proprio lavoro o cambiare partner a tutti i costi. Per essere in armonia con il tuo vero sé potrebbe bastare il fatto di trovare un modo di esprimere le tue potenzialità nei vari ambiti della tua vita.

Capirai essere sulla buona strada quando proverai la sensazione di stare nel momento giusto al posto giusto a fare la cosa giusta (per te!).

Ogni successo avrà un altro valore rispetto a prima perché non starai più realizzando obiettivi imposti dall’esterno bensì il progetto che tu hai scelto per te stesso in modo consapevole e libero. Si innescherà un circolo virtuoso che incrementerà il tuo livello di autostima.

Quando viviamo in armonia con il vero sé sperimentiamo un’autostima spontanea. Ci apriamo al mondo  e sentiamo una spinta a condividere con gli altri sentimenti positivi.

Il Coach può essere un facilitatore di questo processo in quanto può aiutarti a diventare consapevole delle tue potenzialità facendo venire alla luce la tua originalità e unicità.

Sibilla Ceccarelli – Coach

Per info: sibilla@coach2coach.it

La proattività: una risorsa per trasformare positivamente ogni situazione.

la proattività

La proattività: una risorsa per trasformare positivamente ogni situazione. Essere proattivi significa saper agire in modo consapevole e responsabile.

“Perché le cose non vanno come dico io? Non è giusto… non può essere così”

Spesso, quando le cose non vanno come vorremmo, restiamo imbambolati come il bambino a cui è stato tolto il giocattolo dalle mani oppure puntiamo i piedi come in attesa di una figura adulta che possa finalmente darci ciò di cui abbiamo bisogno.

Magari il lavoro non sta andando così bene, non ci sentiamo amati dal nostro partner oppure troviamo il nostro capo insopportabile. La vita ci presenta continuamente dei (buoni?) motivi per sentirci delusi rispetto alle nostre aspettative oppure frustrati rispetto ai nostri desideri. Il punto è: come reagiamo quando una circostanza non volge a nostro favore? La possibilità di ribaltare la situazione in positivo dipende in gran parte dai pensieri che si susseguono nella nostra testa in questi frangenti e dal comportamento adottiamo.

Spesso non accettiamo la realtà così com’è, facciamo resistenza ad essa. Ci concentriamo nel trovare a tutti i costi un “perché”, senza successo. Il risultato di questo atteggiamento? Solo tanto dolore e frustrazione.

Arriviamo a un punto di stallo, di paralisi e ci sentiamo totalmente impotenti, privi della capacità di cambiare la situazione che ci crea sofferenza. Ed è a questo punto che entriamo nel loop della lamentela.

La lamentela

“Il mio capo è un infame”, “mio marito non mi dà mai retta”, “è inutile sperare di aumentare il mio fatturato…c’è la crisi!”.

Tutta la nostra frustrazione sfocia in una lamentela continua rivolta verso tutto e tutti. Spesso riguarda  persino le condizioni meteo e altri fatti immodificabili per definizione.

Certo, “sulla carta” hanno ragione coloro che impiegano tempo ed energie per ripetere a se stessi e al resto del mondo i motivi per i quali una situazione è così difficile o una persona è così negativa. Il punto però è: questo può cambiare le cose?

Tra l’altro, lamentandoci continuamente finiamo per risultare “tossici” per noi stessi e per chi abbiamo intorno.

Non abbiamo il potere di scegliere cosa accade o non accade nella nostra vita. Che noi la riteniamo giusta o meno, che ci sembri positiva o negativa, la situazione non cambia di una virgola.

C’è una cosa però che è in nostro pieno potere, ed è il nostro comportamento rispetto alle persone e alle circostanze. Abbiamo sempre la possibilità di scegliere la reazione rispetto a una situazione, ed è come reagiamo a fare la differenza.

Concentrare le nostre energie mentali sulla soluzione del problema piuttosto che sul problema è l’unico modo per incidere sulla nostra realtà e rivoluzionare in positivo anche le situazioni più avverse.

Tra lo stimolo e la risposta c’è la libertà di scelta

S. R. Covey

La proattività

La proattività ci consente di avere un atteggiamento attivo verso la vita. Grazie alla proattività siamo infatti in grado di creare le situazioni favorevoli invece di limitarci a subire quelle sfavorevoli.

Anziché reagire in modo automatico oppure subire in modo passivo le situazioni, la proattività ci permette di agire in modo consapevole e responsabile. Senza questa potenzialità non saremmo in grado di raggiungere nessun obiettivo nella nostra vita.

Proattivo, passivo o reattivo?

Quando non ci comportiamo in modo proattivo siamo passivi o reattivi.  mentre l’essere proattivi significa allenarsi a scegliere come comportarsi davanti alle situazioni senza innescare il meccanismo di lotta (resistenza) oppure fuga.

Cosa significa quindi essere proattivi?

Se c’è qualcosa che va diversamente da come avremmo voluto, avere un atteggiamento proattivo significa assumersi la propria parte di responsabilità rispetto a ogni circostanza chiedendoci in che modo possiamo comportarci per cambiare le cose.

Cosa possiamo trarre di positivo dalla situazione presente? Cosa ci sta insegnando? e soprattutto… Come possiamo volgerla a nostro favore?

Se vogliamo davvero migliorare la situazione, possiamo lavorare sull’unica cosa su cui abbiamo il controllo: noi stessi.

Invece di crogiolarci nella lamentela e puntare il dito verso gli altri come se i problemi fossero sempre “fuori” di noi, cominciamo a chiederci cosa possiamo fare per cambiare le cose.

“Guarda alle debolezze degli altri con comprensione, non con occhio accusatorio. La questione non è quello che gli altri non stanno facendo o che dovrebbero fare. La questione è la risposta che hai scelto di adottare in quella data situazione e ciò che tu potresti fare per migliorare le cose. Se inizi a pensare che il problema sia “fuori” di te, fermati. Il problema è proprio quello stesso pensiero.”

S. R. Covey

Possiamo smettere di voler cambiare la testa del nostro partner e lavorare invece sulle nostre debolezze. Possiamo concentrarci sull’obiettivo di essere un bravo collaboratore propositivo e orientato alle soluzioni; il nostro capo insopportabile avvertirà il potere dell’esempio proattivo e risponderà in modo positivo. In ogni caso, quale che sia la sua reazione, il modo migliore in cui possiamo influire sulla nostra situazione è di lavorare su ciò che dipende da noi.

“Certe volte la cosa più proattiva che possiamo fare è essere felici, semplicemente sorridere di cuore. La felicità, come l’infelicità, è una scelta proattiva”.

S. R. Covey

Ci sono cose, come il cattivo tempo che non saranno mai sotto il nostro controllo. Ma se siamo persone proattive saremo in grado di accettare le cose che non possiamo controllare mentre concentriamo i nostri sforzi sulle cose che possiamo controllare.

Da “Giudici” severi a modelli positivi per gli altri

Probabilmente qualcuno di noi vorrebbe  migliorare la comunicazione con un figlio un pò ribelle oppure smetterla di litigare continuamente con il collega insopportabile o risolvere situazioni analoghe. Per quanto ci sforziamo di migliorare questi rapporti, tuttavia, spesso riusciamo solo a notare errori e difetti altrui senza far caso al nostro comportamento.

Proviamo invece per un attimo a sospendere il giudizio negativo verso gli altri e a interrogarci su cosa noi siamo disposti a fare per i nostri rapporti interpersonali. Potremmo ad esempio cominciare ad ascoltare con più attenzione, a mantenere gli impegni, ad avere un approccio positivo nei confronti degli altri e così via.

In altre parole, se riusciremo a smettere i panni del giudice e del critico intransigente e cercare di essere un esempio positivo per gli altri, l’ambiente ci risponderà positivamente come se fosse uno specchio che riflette l’immagine da noi proiettata.

 

Sibilla Ceccarelli – Coach

Per info: sibilla@coach2coach.it

“Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare” Dal film “Noi siamo infinito” di Stephen Chbosky

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“Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare” Dal film “Noi siamo infinito” di Stephen Chbosky. In altre parole, l’amore che riceviamo dagli altri spesso rispecchia l’amore che nutriamo verso noi stessi.

“Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare”.

Dal film “Noi siamo infinito” di Stephen Chbosky.

Una volta un’amica mi ripeté questa frase di un film che l’aveva colpita molto e da subito mi accorsi di quanto fosse vera.
C’è una corrispondenza diretta tra l’amore che pensiamo di meritare e quello che siamo disposti ad accettare dagli altri.
Se siamo convinti di non meritare amore e di essere “sbagliati”, di avere una miriade di difetti che rendono qualunque persona che scelga di starci vicino una sorta di benefattore da non farsi scappare, finiremo per perdere di vista il nostro benessere e ci incastreremo in storie d’amore che ci fanno soffrire.
Ci accontenteremo passivamente di relazioni d’amore che ci stanno “strette” o che ci provocano dolore, pur di non perdere la persona che abbiamo accanto. Ci faremo governare dalle logiche del bisogno e della scarsità che ci fanno credere che sia meglio stare con una persona che non ci fa stare bene piuttosto che restare da soli. Senza neanche rendercene conto, abbasseremo l’asticella del rispetto che esigiamo dall’altro e arriveremo ad accettare dal partner anche “le briciole”.

L’amore verso se stessi

Per molti di noi l’amore incondizionato verso se stessi non è affatto scontato. Molte volte può rappresentare il punto di arrivo di un percorso di evoluzione personale.

“Merito davvero di essere amato?”

Spesso questo interrogativo implicito è cruciale nella nostra vita. La risposta – pressoché inconsapevole –  influenza in modo determinante il modo in cui viviamo il rapporto con noi stessi e con gli altri.

Quando non percepiamo il valore che nasce dalla nostra unicità ed esiste a prescindere dai riconoscimenti esterni, facciamo entrare una grande sofferenza della nostra vita.

Sperimentiamo un costante senso di mancanza e non ci sentiamo degni di essere felici, neppure in una storia d’amore.

Cominciamo a pensare di non essere “abbastanza” in ogni ambito della nostra vita e diventiamo schiavi dell’approvazione altrui, rinunciando di fatto alla nostra libertà.

Se nel profondo di noi stessi ci sentiamo fondamentalmente “sbagliati” e “difettosi”, in ogni circostanza cercheremo l’errore dentro di noi e non negli altri. Tenderemo quindi a giustificare qualunque comportamento negativo nei nostri confronti.

La mancanza di autostima rappresenta sicuramente un ostacolo alla legittima aspirazione di molti di noi di vivere una relazione d’amore che ci faccia stare bene.

Questo è il motivo per cui è così importante sentire nel profondo il proprio valore. Il rispetto e la considerazione che riceviamo dagli altri infatti, spesso rispecchiano quelli che riserviamo a noi stessi.

Il valore che ci attribuiamo ci torna dall’esterno

Proprio partendo dalla scoperta e dalla valorizzazione dei propri punti di forza e perseguendo la realizzazione personale in ogni ambito della vita, è possibile allenarsi a percepire il proprio valore personale. Solo in questo modo infatti è possibile vivere una vita piena e appagante, a prescindere dalla presenza di un partner.

Grazie a un percorso di Coaching è possibile acquisire una piena consapevolezza delle proprie potenzialità e di come è possibile utilizzarle per raggiungere i propri obiettivi. In questo modo sarà possibile star bene con se stessi anche se si è single. Percepirsi come “un frutto intero”, come individui completi e centrati su se stessi è la necessaria premessa per essere pronti a vivere finalmente una relazione d’amore positiva e gratificante.

Quando non percepiamo il nostro valore personale, ci sentiamo incompleti e bisognosi e abbiamo l’esigenza di trovare un partner a tutti i costi. In questi casi tendiamo ad accontentarci della prima situazione che ci capita.

Nel momento in cui invece cominciamo a dare valore a noi stessi, questo valore ci tornerà dall’esterno.

Saremo pienamente consapevoli del fatto che la nostra vita può essere bella e gratificante anche se siamo single.

Sceglieremo di iniziare una relazione solo se sentiremo di aver incontrato una persona davvero meritevole di starci accanto.
Finalmente non saremo più disposti ad accettare comportamenti che ci fanno soffrire pur di non perdere una persona. A quel punto non accetteremo più nulla di diverso da ciò che ci fa stare bene.

Sibilla Ceccarelli – Life & Business Coach

sibilla@coach2coach.it

Obiettivi. Il modo in cui si formula un obiettivo è fondamentale per il suo raggiungimento.

obiettivi

Obiettivi. Il modo in cui si formula un obiettivo è fondamentale per il suo raggiungimento. Come individuare i tuoi obiettivi in modo da aumentare le possibilità di portarli a termine.

Secondo le statistiche, solo l’8% di chi stabilisce degli obiettivi per il nuovo anno riesce a raggiungerli. Tu rientri in questa ristretta percentuale?

Di tutti gli obiettivi che ti prefiggi, quanti ne riesci effettivamente a raggiungere?

Spesso, nonostante la nostra determinazione, abbandoniamo gli obiettivi ben prima della loro realizzazione.

Dal proposito più semplice di iscriversi in palestra a quello più complesso di cambiare lavoro, molti obiettivi sono destinati ad avere vita breve fin dalla loro nascita.

Nella maggior parte dei casi, infatti, alla forza di volontà non fanno seguito azioni congruenti rispetto al fine. In questo modo, a lungo andare, finiamo per abbassare il nostro livello di autostima e il senso di autoefficacia. Le possibilità concrete di realizzare i nostri obiettivi per il futuro diminuiscono sempre di più.

Perché è così difficile concretizzare i propositi che ci prefiggiamo?

Accade spesso che l’obiettivo venga formulato in modo poco efficace.

È di capitale importanza, infatti, che l’obiettivo sia il più specifico e dettagliato possibile. Vediamo quali sono i modi per stabilire gli obiettivi in modo da favorire la loro realizzazione.

Passa dal “devo” al “scelgo”

“Quando voglio farlo ottengo risultati migliori di quando devo farlo.

Voglio farlo per me, devo farlo per te. L’automotivazione è una questione di scelta”.

Sir John Whitmore

Ripetere a te stesso “devo dimagrire” ha un impatto su di te ben diverso della frase “voglio dimagrire”.

Nel caso del dovere, infatti, percepirai l’obiettivo come imposto dall’esterno. Se “devi” dimagrire, significa che questo imperativo non è sorretto da una motivazione ben radicata in te. Probabilmente, la tua intenzione di dimagrire è motivata dal tentativo di conformarti alle richieste della società, del partner, della famiglia ecc.

Intendi dimagrire perché desideri davvero farlo oppure perché stai interiorizzando una motivazione che proviene dalla società?

Nel caso in cui invece tu percepisca l’obiettivo come frutto di una libera scelta ed espressione di un tuo desiderio autentico, ti assumerai la piena responsabilità della sua realizzazione che dipenderà esclusivamente dalla tua volontà.

Passare dalla dimensione del “dovere” a quella della “scelta”, dunque, è di primaria importanza per favorire il raggiungimento di un obiettivo.

Caratteristiche di un obiettivo efficace

obiettiviUn buon obiettivo deve essere SMART. L’acronimo sta per:

SPECIFICO (formulato in modo chiaro e privo di ambiguità);

MISURABILE (deve essere possibile verificarne i progressi e il raggiungimento);

“ATTAINABLE” ovvero RAGGIUNGIBILE;

RILEVANTE;

TEMPORALMENTE CIRCOSCRITTO (deve essere stabilito un periodo ben definito entro il quale l’obiettivo deve essere raggiunto).

È altrettanto importante che l’obiettivo sia stimolante e sfidantealtrimenti potrebbe subentrare ben presto la noia.

Se un obiettivo non è realistico non c’è speranza che si realizzi, ma se non è stimolante non c’è motivazione a sorreggerlo.

Una volta individuato, l’obiettivo deve essere messo per iscritto. La scrittura ha infatti il potere di fare chiarezza su ogni pensiero e di fissarne definitivamente il contenuto.

Formula l’obiettivo in positivo

“Tendiamo a ottenere ciò su cui ci concentriamo. Se temiamo di fallire, la nostra attenzione è puntata sul fallire, ed è quello che otterremo”.

Sir John Whitmore.

È molto importante formulare gli obiettivi in positivo.

Cosa succede se un obiettivo è espresso in negativo?

Se ti dico “non pensare a un palloncino rosso” cosa ti viene in mente?

Un obiettivo formulato in negativo predispone la nostra mente affinché esso si realizzi, dunque è del tutto controproducente. Gli obiettivi espressi in negativo si possono facilmente trasformare in positivo, ad esempio: “non voglio più soffrire per amore” può essere trasformato in “voglio una relazione felice e appagante”.

Individua un obiettivo performance

L’obiettivo risultato è indispensabile per ispirare le nostre azioni. È un sogno a cui tendere.

Obiettivi risultato sono ad esempio quelli di vincere una partita di calcio oppure trovare la propria anima gemella.

Affinché un obiettivo risultato sia realizzabile, però, è necessario che esso sia sostenuto dal c.d. obiettivo performance.

Gli obiettivi risultato, infatti, hanno la caratteristica di non essere sotto il nostro pieno controllo. Vincere una partita di tennis, ad esempio, dipende dalla nostra performance ma anche da quella dell’avversario.

Il contesto non è controllabile, dunque l’obiettivo risultato porta a uno stato di ansia per via della volontà di controllare ciò che non è in nostro potere.

Ciò che dipende da noi è invece la nostra performance. Quanto più l’attenzione è concentrata su ciò che puoi controllare, tanto più aumentano le possibilità di raggiungere i tuoi obiettivi risultato.

Gli obiettivi performance si focalizzano sull’allenamento e il miglioramento della tua performance. Per esempio, quante volte alla settimana ti alleni per una gara?

Questi obiettivi sono sotto il tuo controllo in quanto riguardano le tue azioni.

Grazie agli obiettivi performance, inoltre, è possibile verificare il progresso verso l’obiettivo risultato.

Scegli un obiettivo in linea con la parte più autentica di te

Non scordarti di verificare che l’obiettivo che intendi realizzare sia coerente e in armonia con i tuoi valori.

Per esempio, se intendi guadagnare di più aumentando il numero delle commesse di cui ti occupi, potrebbe essere necessario che tu diminuisca il tempo che dedichi alla famiglia. Sei davvero disposto a sacrificare parte del tempo che trascorri con i tuoi figli per raggiungere il tuo obiettivo?

Se un obiettivo entra in contrasto con il tuo sistema di valori, si crea dentro di te un conflitto che porterà inevitabilmente al fallimento del tuo proposito.

Stabilisci un piano d’azione efficace

A questo punto occorre stabilire un piano d’azione che suddivida l’obiettivo in obiettivi intermedi in modo da poter verificare i progressi fatti.

La presenza di “tappe intermedie” permette di raggiungere obiettivi mano a mano sempre più sfidanti. Contemporaneamente, nel verificare i graduali progressi che ti avvicinano alla meta, aumenta il tuo livello di autostima , fondamentale per raggiungere con successo ogni traguardo.

Sibilla Ceccarelli – Coach

Per info: sibilla@coach2coach.it

Perché non si innamora di te?

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Vediamo insieme i motivi per i quali la persona che desideri non si innamora di te e ti considera solamente un amico o semplicemente una persona affidabile.

Ti sembra di aver fatto tutto bene eppure dice che ti trova simpatico, che ti vuole bene. Ma non ti basta, vero?
NO
Nel momento in cui incontriamo una persona che ci piace, con cui vorremmo stare insieme, siamo naturalmente portati a cercare il suo consenso. È un atteggiamento naturale che però non tiene conto di un elemento fondamentale: la simpatia, l’accordo e l’affetto non sono la stessa cosa dell’interesse, di questi non s’innamora!
Questa distinzione fondamentale viene dimenticata troppo spesso, specie da coloro che riscuotono poco successo in campo sentimentale.
Simpatia e affetto non sono ciò su cui dovresti concentrarti se vuoi ottenere di più. Lei non s’innamora della persona per cui prova solo affetto.
Le persone ansiose di ottenere successo in amore, di solito si comportano cortesemente. Sono sempre educati, invitano la persona desiderata a uscire e, se riescono a superare l’imbarazzo, la riempiono di complimenti. Tuttavia, la cosa che non considerano è che non susciteranno il loro interesse con questo comportamento, ma, se tutto va bene, riceveranno solo il loro affetto.
Guardati intorno: le persone non iniziano una storia con una persona per la quale provano simpatia, ma molleranno gli ormeggi solo con coloro per i quali provano vero interesse.
Ma perché tutti si ostinano a cercare di conquistare la simpatia della persona desiderata?
Il motivo si chiama “reciprocità”. La maggior parte delle persone ha fretta, vuole tutto e subito, ha paura che il tempo stia volando via e quindi pensa che il modo migliore e più veloce per conquistare una persona sia quella di farsi volere bene, di prendersene cura e di rassicurarla.
Se le mostri il tuo affetto, allora potrebbe anche provare affetto per te. Questa è una strategia semplice e facile da mettere in pratica: tutto quello che devi fare è mostrare cosa provi e prestare attenzione. Se ci pensate bene è quello che ci dicono i romanzi d’amore o i film.

Ma così non si innamora…

Il problema di questa strategia è che le persone non scelgono chi gli sta simpatico ma coloro da cui sono attratti e per i quali provano interesse.
Conosci la differenza?
L’affetto è ciò che provi per i tuoi genitori e i tuoi amici più stretti, ma anche per qualcuno che ami davvero. L’attrazione, invece, è ciò che ti tiene sveglio la notte, che ti inebria, che ti fa volare con la fantasia e che ti attira come una calamita verso la persona che desideri.
L’affetto denota comportamenti diversi. Ciò che intendo sono i comportamenti con cui noi cerchiamo di mostrare a colui/colei che desideriamo che siamo la persona giusta: facciamo complimenti, regaliamo fiori, biglietti per concerti, invitiamo a cena, cerchiamo di impressionare, ci prendiamo cura offrendo soluzioni per tutti i problemi e, errore madornale, ci siamo sempre. Aspettiamo un cenno e siamo liberi e disponibili dimenticandoci dei nostri impegni. In questo mondo ci trasformiamo in zerbini.

Se farai tutto questo, nel migliore dei casi, ti considererà una brava persona. Sarai qualcuno che le sta simpatico, di cui si fiderà e forse, cosa che ti spezzerà il cuore, ti dirà che saresti l’uomo giusto per sua sorella o la sua migliore amica.
Vuoi sapere perché è così?
Mettiti nei panni della persona che desideri. Se incontrassi qualcuno che è affidabile, gentile e dolce allora penseresti che sarebbe la persona giusta per una qualcuno a cui tieni. Per te, invece, i fattori importanti sono altri. A te non interessa un buon partito, a te piace chi ti attrae, chi ti interessa, chi è in grado di stimolarti.
Quindi il comportamento gentile e affettuoso non attira l’attenzione, ma “solo” affetto e simpatia. Di più, se corteggi una persona troppo presto, di solito perderà il suo interesse per te.
Per rendere ancora più chiaro questo concetto, ipotizziamo un confronto semplice ma efficace …
Hai la possibilità di scegliere tra due donne: una che è totalmente presa da te e una che non riesci pienamente a decifrare e che ti tiene sulla corda. Pensaci bene: quale vorresti di più?
Molto probabilmente la seconda.

Il motivo per cui la desideri più dell’altra è che lei non è così disponibile per te.

Se abbiamo qualcosa a nostra completa disposizione, allora possiamo averla quando vogliamo e quindi non è più così desiderabile.
Ora applica questa conoscenza al modo in cui devi stimolare il suo interesse.

Il modo con il quale la maggior parte delle persone cerca di ottenere l’amore li rende tangibili e niente di straordinario. Questo comportamento segnalerà alla controparte che ha tutto il potere nelle sue mani e che le basterà schioccare le dita per averti.
Se lei sta disperatamente cercando qualcuno di innamorarsi, allora il tuo affetto può essere sufficiente per ottenere il suo amore e lei si farebbe coinvolgere da te.
Ma se lei è emotivamente stabile allora no, cercherà il miglior uomo possibile. Un uomo che le corre dietro e si prostra ai suoi piedi, senza che lei debba fare nulla, non le interesserà.
Questo spiega perché non interessano le persone che si possono avere facilmente, ma quelli che ci stimolano. Tali persone saranno sempre quelli dei quale non sarà sicura se potrà averli o meno. E di questo incredibilmente si innamora…
E questo ci porta a una regola importante che devi sempre applicare se vuoi suscitare il suo interesse verso di te.
Immagina una donna: se ti trova dolce e tu le confidi i tuoi sentimenti verso di lei, allora non la sposterai da dove si trova. Hai progredito molto, attirando il suo interesse ma questo ti rende disponibile di darle molto più tempo e spazio. Ma questo, irrimediabilmente, ti renderà poco interessante.

Potresti quindi vincere il suo affetto per te, in modo che ti veda come un bravo ragazzo, ma certamente non susciterai il suo interesse. E se lei non dovesse essere alla disperata ricerca di un partner, il risultato non sarà quello che desideri.
Se lei è una persona attraente, di solito sperimenta molto spesso questo tipo di situazioni: un uomo le mostra che le piace, ma non capisce che questo non lo rende affatto interessante, e la fa indietreggiare.

Ma ecco la svolta …

A un certo punto incontra un ragazzo che è diverso. Un uomo che sa come affascinarla. Una persona che non la corteggia, ma la prende per quella che è e gioca con il suo interesse per lei. Un uomo che l’ascolta, che le da attenzione certo, ma anche qualcuno che, dopo aver cercato di capire com’è fatta, cercherà di stimolare il suo interesse che le farà capire che rappresenta un’occasione incredibile da non farsi sfuggire. Un uomo che non le dispiacerà nemmeno qualche settimana dopo l’incontro. E poi, chissà, magari lei s’innamora…

Ora è tempo che tu prenda una decisione:

Quale di questi due tipi sarai d’ora in poi?
Colui che corteggia le donne e cerca di conquistare il loro affetto per se stesso, ma non va oltre l’amicizia.
Oppure sarai quello che susciterà il loro interesse, quello che le donne cercano quando entrano in una stanza e quello a cui pensano quando si trovano sveglie a letto la notte.

Ora tocca a te fare la tua scelta. Quali sono i tuoi punti di forza? Come attirare l’interesse?

Si parte da qui. Per info scrivimi a patrick@coach2coach.it

 

Patrick vom Bruck 

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Fame fisiologica o “fame emotiva”?

Fame fisiologica o “fame emotiva”? La “fame emotiva”, grande nemica della dieta. Come sconfiggerla e conquistare la linea che desideri.

Quante volte ti è capitato di non essere costante nella dieta a causa d’improvvisi attacchi di fame? Quante volte, in particolare, il senso di fame era connesso a emozioni spiacevoli?

Sto parlando di quell’appetito incontrollabile che ti spinge a sgranocchiare snack al cioccolato, patatine o altri alimenti ipercalorici nel tentativo di colmare un senso di vuoto, una carenza di gratificazione, di affetto e più in generale di emozioni positive.

Questa condotta alimentare dipende da fattori emotivi. Il cibo in questo caso assume la funzione di valvola di sfogo rispetto a qualcosa che non va come vorresti nella tua vita.

Si tratta di un problema molto comune, che facilmente viene confuso con la fame vera e propria, che risponde a un’esigenza di nutrimento dell’organismo. È tuttavia importantissimo riconoscerla perché è uno delle principali cause di fallimento di un regime alimentare ipocalorico.

Quando la fame nervosa diviene cronica e si attuano frequentemente le c.d. “abbuffate” questa abitudine può diventare un vero e proprio disturbo alimentare, ovvero il “binge eating.

Se stavolta hai deciso davvero di perdere i chili di troppo, gli attacchi di fame nervosa rischiano purtroppo di vanificare tutto il tuo impegno nel seguire una dieta ipocalorica.

Un lavoro su te stesso, guidato da un Coach, può aiutarti a correre ai ripari e a non compromettere il tuo obiettivo.

Occorre infatti che diventi consapevole delle emozioni che si celano dietro questa condotta alimentare invece di soffocarle con il cibo.

Perché la “fame emotiva” è così pericolosa per la tua linea?

Questo tipo di appetito, avendo origine nelle emozioni che lo hanno evocato, è più difficile da soddisfare.

Se la fame risponde a una reale esigenza dell’organismo, una volta che si è mangiata la quantità di cibo di cui il corpo necessita, si raggiunge la sazietà.

Se invece si tratta di fame nervosa, si può arrivare a consumare in breve tempo enormi quantità di cibo senza provare alcuna soddisfazione. Gli alimenti, infatti, non sono in grado di soddisfare le esigenze emotive da cui scaturisce la voglia di mangiare.

Quali emozioni possono generare la spinta compulsiva a mangiare?

In alcuni casi, a provocare l’aumento dell’appetito è l’ansia rispetto a eventi futuri o prove che ti fanno sentire sotto pressione e che ti preoccupano.

Altre volte finisci per utilizzare il cibo per placare la rabbia nei confronti di una persona o di una situazione rispetto alla quale ti senti impotente. Spesso infatti si evita di esprimere la rabbia in quanto vissuta come un’emozione inaccettabile.

Anche la solitudine può innescare questa condotta alimentare. In questi casi puoi percepire il cibo come l’unica fonte sicura di gratificazione.

Il cibo, poi, può assumere una funzione consolatoria rispetto alla tristezza che scaturisce da un evento doloroso o da una delusione.

E ancora, si può mangiare per “punirsi” e placare il senso di colpa, o magari per noia, per paura e così via.

Come vincere la “fame emozionale”

Ti sei riconosciuto in una o più di queste situazioni?

Vuol dire che è arrivato il momento di individuare e trasformare qualche aspetto della tua vita che ti provoca disagio o addirittura sofferenza, smettendola di metterlo a tacere con gli spuntini.

La chiave della soluzione del problema risiede proprio nella consapevolezza.

Per disinnescare il meccanismo occorre infatti che diventi cosciente del tuo stato emotivo nel momento in cui senti l’impulso di mangiare. Basta che ti fermi un attimo e poni a te stesso alcune domande: “il mio corpo ha davvero bisogno di mangiare? Che emozione sto provando?”.

In questo modo si può comprendere se la fame risponde o meno a un’esigenza fisiologica.

Se percepisci che il bisogno è di tipo emotivo, è il caso che ti chieda: “questa tavoletta di cioccolata è davvero in grado di farmi stare meglio?”

Sfortunatamente, la riposta è “no”. La tua paura o il tuo bisogno di compagnia resteranno proprio lì dove li hai lasciati. Il nutrimento emotivo in termini di conforto, rassicurazione e consolazione che trai dal cibo è solo temporaneo e non destinato a durare.

Spesso poi, dopo un temporaneo momento di gratificazione, l’abbuffata lascia spazio al rimorso e al senso di gonfiore. Insomma, puoi sentirti peggio di prima mentre il bisogno che ti ha spinto a mangiare resta del tutto insoddisfatto.

Prova a ricordare a te stessa la sensazione negativa che provi dopo le abbuffate. Puoi annotarla su un diario e rileggerla ogni volta che senti l’impulso di mangiare.

Il fatto di associare mentalmente alle abbuffate le sensazioni negative che ne conseguono, ti aiuterà a far sì che non si ripetano.

Una volta divenuto consapevole delle emozioni che ti spingono verso il cibo, nelle sessioni con il tuo Coach puoi esprimerle e individuare le situazioni e gli aspetti della tua vita in cui trovano origine.

C’è qualcosa nella tua vita che intendi cambiare? Hai un rapporto con una persona che è costantemente fonte di emozioni negative? Le tue paure rispetto a un evento sono realistiche? Fai qualcosa di concreto per sentirti meno solo?

Attraverso questo tipo di interrogativi e con l’aiuto del tuo Coach, puoi arrivare a individuare le emozioni e i sentimenti alla base delle abbuffate.

Grazie al percorso di Coaching puoi lavorare sulle situazioni della tua vita che generano quel malessere che ti impedisce di essere regolare nella condotta alimentare.

Essere costanti nella dieta e perdere i chili di troppo diventerà molto più facile!

Sibilla Ceccarelli

sibilla@coach2coach.it

Il Calcio visto da un genitore che ha capito!

Il Calcio

Il Calcio visto da un genitore che ha capito! Oggi il calcio dei bambini è troppo spesso caratterizzato da genitori invadenti che scaricano le loro frustrazioni sui ragazzi. Condivido la lettera di un genitore illuminato.

Un amico mi ha chiesto “Perché continui a pagare soldi per far fare Calcio ai tuoi figli?”
“Beh, devo confessarvi che io non pago per far fare Calcio ai miei figli. Personalmente non può importarmi di meno del Calcio. Quindi se non sto pagando per il Calcio per cosa sto pagando?
Pago per quei momenti in cui i miei figli son così stanchi che vorrebbero smettere ma non lo fanno.
Pago per quei giorni in cui i miei figli tornano a casa da scuola troppo stanchi per andare al campo ma ci vanno lo stesso.
Pago perchè i miei figli imparino la disciplina.
Pago perchè i miei figli imparino ad aver cura del proprio corpo.
Pago perchè i miei figli imparino a lavorare con gli altri e a essere buoni compagni di squadra.
Pago perchè i miei figli imparino a gestire la delusione quando non ottengono la maglia che speravano di avere ma devono ancora lavorare duramente.
Pago perchè i miei figli imparino a crearsi degli obiettivi e a raggiungerli.
Pago perchè i miei figli imparino che ci vogliono ore ed ore ed ore di duro lavoro e allenamento per creare un calciatore, e che il successo non arriva da un giorno all’altro.
Pago per l’opportunità che hanno e avranno i miei figli, di fare amicizie che durino una vita intera.
Pago perchè i miei figli possano stare su un rettangolo di gioco anziché davanti a uno schermo….
Potrei andare avanti ancora ma, per farla breve, io non pago per il Calcio, pago per le opportunità che il Calcio da ai miei figli di sviluppare qualità che serviranno loro per tutta la vita e per dar loro l’opportunità di far del bene alla vita degli altri.
E da quello che ho visto finora penso che sia un buon investimento.
Firmato:
Un genitore che ha capito.

Patrick vom Bruck
patrick@coach2coach.it

(Via Scuola Calcio Circolo Sportivo Italia)

Il fallimento è fondamentale per arrivare al successo.

Fallimento

Il fallimento è fondamentale per arrivare al successo. Fallire non è una sconfitta ma contribuisce a conoscere e superare i propri limiti.

Fallimento e successo sono due parole dal significato apparentemente distante e antitetico. Eppure la realtà ci dimostra che non è così. Potremmo, al contrario, dire che il fallimento e il successo siano due facce della stessa medaglia e che l’una non possa prescindere dall’altra.

Se diamo un’occhiata alla biografia dei personaggi famosi che hanno raggiunto risultati straordinari in ogni campo, scopriremo che, gran parte di loro, una o più volte nella vita, ha avuto dei grandi momenti di difficoltà in ambito professionale.

Esiste ad esempio un’ampia casistica di rifiuti incassati da celebri attori, cantanti, scrittori da parte di produttori, editori e così via che va dai Beatles a Stephen King. Per citare un episodio, è rimasto alla storia l’estromissione di Steve Jobs dalla Apple, azienda che lui stesso aveva fondato.

Se è vero che anche le persone di successo falliscono, cosa permette loro di raggiungere l’eccellenza laddove altri non riescono?

La differenza sta nel modo in cui vivono il fallimento.

“Il successo è l’abilità di passare da un fallimento all’altro senza perdere l’entusiasmo”.

Winston Churchill

Le persone di successo falliscono molto. Spesso falliscono anche di più di quanto riescano. Il punto è che riescono a usare l’energia che proviene dal fallimento per passare alla fase successiva.

Chi coglie nel fallimento un’opportunità di crescita, riesce a trarre nuova saggezza dall’esperienza negativa. Il fallimento infatti porta con sé un insegnamento che permette di compiere un salto in avanti nel percorso verso l’obiettivo.

Ogni risultato negativo, se analizzato con lucidità e coraggio, può aumentare la tua consapevolezza circa la tua situazione attuale. Inoltre può fornirti importanti indicazioni sul modo più opportuno per correggere il tiro.

“Che cosa ho imparato da questa esperienza?”

Grazie a questa domanda è possibile capire quali competenze, skills o azioni saranno necessarie per ottenere il risultato sperato.

Affinché sia possibile analizzare l’episodio in modo razionale, però, occorre evitare di caricarlo di significati ulteriori.

Chi non circoscrive la portata del fallimento al singolo episodio ma, al contrario, ne trae una valutazione negativa sulla sua persona, è infatti portato a rinunciare al suo intento. In questo caso, ogni fallimento è vissuto come punto di non ritorno.

Ecco il motivo per cui nella vita non basta avere talento per raggiungere livelli di eccellenza. Per riuscire in ogni ambito, occorre anche avere un approccio costruttivo e non distruttivo al fallimento.

Aver fallito non significa essere dei “falliti”

La paura è una delle emozioni di base dell’essere umano. Essa ci accompagna lungo il percorso della nostra realizzazione personale che è pieno di ostacoli da superare. È dunque perfettamente normale il fatto di avere paura di fallire.

Se attribuisci però ad ogni prova che la vita presenta la valenza di dimostrazione circa il tuo valore a 360 gradi, la paura può diventare paralizzante.

Sovraccaricare ogni sfida di un significato ulteriore rispetto all’episodio in sé può portare a evitare di mettersi alla prova.

Alcune persone preferiscono non sfidarsi pur di non rischiare di fallire. In questo modo limitano le loro scelte e azioni bloccando la loro autorealizzazione.

“Non sono in grado… ho fallito anche stavolta…sono un fallito”

Ti capita di ripeterti frasi del genere quando non ottieni il risultato sperato?

Ricordati che quanto vali non dipende dai risultati che ottieni. Un risultato negativo può darti informazioni circa la qualità della tua performance, non riguardo alla persona che sei.

Se per te ogni sfida assume un valore esistenziale, nel caso in cui non otterrai l’obiettivo desiderato, finirai per rinunciare al tuo proposito.

È importante invece che ricordi che ogni esperienza di fallimento è ricollegabile a un episodio specifico. In altre parole, hai sbagliato ma non sei sbagliato.

L’allenamento è un fallimento intenzionale

Per autosuperarsi occorre vivere al limite delle proprie capacità, dove è quasi certo che si fallirà. Questa è la ragione per cui è necessario esercitarsi.

“Allenarsi significa progettare e realizzare, sperimentare e imparare, ripetere e ancora ripetere fino a che la sequenza successiva di azioni non sia migliore della precedente”

Luca Stanchieri

Attraverso la ripetizione costante di un’azione, ci si scontra con i propri limiti più e più volte fino al punto di riuscire gradualmente a superarli. In questo modo è possibile raggiungere livelli sempre più elevati di performance.

In quest’accezione, l’allenamento è un fallimento intenzionale. Come accade nell’esercizio fisico, ogni volta che raggiungiamo il nostro limite siamo convinti di non poter andare oltre. Arriva però un momento in cui mettiamo in atto quel cambiamento che rende possibile ciò che prima era impossibile.

Ogni fallimento, dunque, può essere un gradino in più verso la tua realizzazione personale. Imparare a leggere il fallimento come una lezione da imparare invece che come una sconfitta esistenziale, è fondamentale per diventare una persona di successo e raggiungere i tuoi obiettivi.

Sibilla Ceccarelli – Coach

sibilla@coach2coach.it

Le relazioni: attenzione a quelle pericolose

Le relazioni

Le relazioni. Fate attenzione a quelle pericolose, a quelle che possono sfociare in violenza fisica e psicologica, a quelle che lasciano segni permanenti.

Le relazioni costituiscono spesso uno specchio della nostra vita, sono senza dubbio un indicatore importante di chi siamo e di come stiamo.

“Tu sei la somma delle cinque persone che frequenti di più”, diceva Jim Rohn e, dal punto di vista empirico non ho ancora mai trovato una prova contraria a questa meravigliosa frase.

Se ci fai caso in ogni relazione, sentimentale, amicale o professionale, ti imbatti sempre in situazioni simili. Una mia cliente, per esempio, ha sempre avuto uomini che la trattavano male. Era talmente abituata a essere denigrata dai suoi partner che, una volta conosciuta una persona che la riempiva di ciò che voleva, ovvero presenza e affetto, era impaurita e insicura.

Il tuo livello di autostima nelle relazioni è strettamente correlato a come queste ti fanno sentire.

Le relazioni contengono dei segnali cui dovresti prestare attenzione in quanto ti indicano la loro potenziale tossicità:

  • Ti umilia in pubblico.
  • Ti accusa di essere colpevole della sua rabbia.
  • Se la tua autostima da quando stai con lui/lei è diminuita.
  • Quando la sua gelosia condiziona i tuoi comportamenti, limitando la tua libertà.
  • Se, quando si arrabbia, si sfoga con violenza sugli oggetti.
  • Se ti fa sentire sbagliata/o.
  • Quando non dici quello che pensi per paura di farlo/a arrabbiare.

Essere umiliati in pubblico è brutto, indipendentemente da chi lo fa, ma se a farlo è il nostro partner allora diventa terribile. La situazione peggiore quando non reagisci all’umiliazione in quanto in questo modo non solo legittimi quanto detto ma, di fatto, alleni il tuo partner a farlo ancora. Se, per esempio, il tuo partner ti accusasse davanti ad amici e conoscenti di essere una frana ai fornelli, o peggio a letto, e tu non rispondessi allora il rischio di credere a quanto detto aumenta in modo esponenziale. L’umiliazione pubblica, così come quella detta tra le mura di casa, deve essere immediatamente bloccata.

I femminicidi costituiscono solo la punta dell’iceberg di un sottobosco fatto di violenze fisiche e psicologiche.

Le relazioni fatte di violenza sono tantissime. Ti sarai senz’altro chiesto come sia possibile finire in una relazione violenta, ma è più facile di quanto credi. I soggetti violenti, infatti, nascondono la loro indole dietro un’apparenza dolce e accogliente. Nessuna relazione violenta è iniziata con uno schiaffo, anzi normalmente passa molto tempo prima che si manifesti un accenno di violenza, che può essere uno spintone o uno schiaffo.

A questo seguono milioni di scuse, regali e la vittima può essere indotta a pensare che l’episodio violento sia stato solo un incidente, visto che non era mai accaduto prima. Eppure, se non si interrompe immediatamente la relazione, questo è l’inizio dell’inferno. La violenza aumenterà sempre di più con conseguenze facilmente immaginabili. La cosa orribile è che il soggetto violento accuserà la vittima di essere la causa dei suoi scatti violenti.  Una frase tipica è “guarda cosa mi costringi a fare!”. Le relazioni di questo tipo hanno degli effetti ovviamente devastanti sull’autostima.

Tuttavia non esiste solo la violenza fisica. Un partner rabbioso, aggressivo e facile all’ira è altrettanto pericoloso. Averci a che fare può risultare altamente deleterio per il nostro benessere e la nostra autostima. Se, per quieto vivere, inizi a non dire quello che pensi o a limitare le cose che fai per paura di farlo arrabbiare allora inconsapevolmente lo legittimerai. Questo aumenterà in te un senso di frustrazione e infelicità unitamente a un forte abbassamento della tua autostima.

Le relazioni sono minacciate da un altro grave pericolo, la gelosia.

Personalmente non trovo un unico aspetto positivo della gelosia in un rapporto. La gelosia è strettamente legata al possesso. Chi è geloso vuole avere il partner tutto per se e ha paura che qualcuno possa portarglielo via. Ogni cosa è vista con sospetto, il telefono del partner è un nemico perché potrebbe nascondere minacce e segreti.

Se noti che il tuo partner inizia a farti dei veri e propri interrogatori sui ciò che hai fatto in sua assenza, se vuole controllare il tuo telefono o le tue mail, allora hai un problema. La tua privacy è sacra! Non metterlo subito in chiaro ti farà correre il rischio di ritrovarti in una relazione tossica in cui la tua libertà potrebbe essere fortemente limitata.

Ovviamente non è sempre facile prestare attenzione a questi elementi se hai avuto dei modelli sbagliati. Se i tuoi genitori hanno o avevano una relazione negativa, fatta di litigi, di mancanza di rispetto, di tradimenti, allora tu potresti aver interiorizzato questo modello.

Fermati e ragiona sulla relazione dei tuoi genitori e domandati se hai mai ricalcato quel modello oppure se hai tentato di intraprendere la strada diametralmente opposta. Ora chiediti se questo tipo di relazione è quella che vorresti davvero, se è quella che corrisponde ai tuoi valori, alle tue emozioni.

Esistono persone che crescono in contesti dove la violenza domestica è all’ordine del giorno e che credono che non sia possibile vivere in altro modo.

Altre persone invece hanno avuto a che fare con persone che ne hanno devastato l’autostima, che le hanno permanentemente fatte sentire inferiori, inadeguate e, in generale, sbagliate.

Per avere una relazione sana devi innanzitutto allontanare i pericoli. La tua vita deve essere come una discoteca, la tua discoteca. Sei tu a decidere cosa fare per stare bene e, soprattutto, sei tu a decidere chi entra e chi no e quali sono le caratteristiche per essere ammesso nella tua vita. Le situazioni di cui ti ho parlato sono subdole e possono colpire chiunque e quindi presta attenzione a questi segnali. Se, leggendo questo articolo, hai notato che uno o più elementi di cui ho scritto sono già presenti nella tua relazione allora devi domandarti se il tuo partner è davvero giusto per te.

Se hai dei dubbi oppure se vuoi chiedere un consiglio, scrivimi pure. Aiutarti sarà un piacere.

Patrick vom Bruck

patrick@coach2coach.it

Perdonare ti rende libero dal passato e ti consente di fare spazio di nuovo all’amore nella tua vita

perdonare

Perdonare ti rende libero dal passato e ti consente di fare spazio di nuovo all’amore nella tua vita. Il perdono è un regalo che fai a te stesso.

Una persona cara ti ha fatto soffrire in qualche modo. Magari lo ha fatto senza volerlo e in modo inconsapevole. Eppure non riesci proprio a concederle il perdono.

Imparare dall’esperienza per te ha significato non aprirti e non fidarti più di nessuno in modo da poter evitare ogni delusione.

Apparentemente sei ben disposto verso le relazioni, ma nel profondo non lasci più che nessuno si avvicini al tuo cuore. Sei convinto che questo sia l’unico modo per preservarti dal rischio di provare di nuovo quella sofferenza.

La rabbia combinata con l’amore, l’orgoglio ferito e il rancore fanno sì che il responsabile del tuo dolore sia ancora protagonista dei tuoi pensieri e resti una figura ingombrante nella tua vita.

Paradossalmente, il desiderio di rivalsa e la mancata accettazione di quello che è accaduto ti tengono ancora legato a quella persona.

Nel tuo presente non c’è spazio per l’amore perché sei ancorato al tuo passato.

“Lascia andare o sarai trascinato”.

Proverbio Zen

Che cos’è il perdono?

Perdonare genera un senso di benessere in colui che perdona e in colui che viene perdonato.

Generalmente si pensa che perdonare implichi necessariamente il fatto di aprire di nuovo la propria vita alla persona perdonata.

In realtà, perdonare vuol dire qualcosa di più semplice: accettare quello che è stato.

Il perdono non implica alcun giudizio positivo né negativo. È più che altro una resa nei confronti della realtà.

Suona facile vero? In realtà in molti casi può essere davvero complicato se non addirittura impossibile.

Alcune persone trascorrono una vita intera senza aver perdonato qualcuno che per loro è (stato) importante. La scelta di non perdonare, per assurdo, finisce per procurare loro più dolore del trauma vissuto.

Non perdonare significa opporsi a quello che è stato nell’illusione che questo possa migliorare in qualche modo le cose.

Il passato non è più sotto il tuo controllo e opporvi resistenza è frustrante e del tutto inutile. Anzi, è proprio il fatto di non accettare ciò che è successo a mantenere in vita la tua sofferenza.

Il dolore della ferita relazionale, in questo modo, si cristallizza nella tua vita.

Perché è così difficile perdonare?

La psicologia e le neuroscienze ci insegnano che il nostro cervello è programmato in modo tale da perseguire il piacere ed evitare il dolore.

È ciò che noi leghiamo a questi due stimoli a orientare le nostre scelte e azioni e dunque a determinare la nostra realtà.

Se una persona ti ha fatto del male, il fatto di perdonarla e di aprirle di nuovo uno spiraglio nella tua vita ti fa sentire più vulnerabile e dunque nuovamente esposto al pericolo di soffrire.

Nella tua mente, dunque, prevale più di ogni altra spinta quella a evitare ciò che ormai hai associato al dolore.

Quello che spesso non consideri è che il fatto di non perdonare una persona che è stata importante, in realtà raddoppia la sofferenza.

Al dolore del trauma originario, che resta intatto, si aggiunge il dolore dovuto al fatto di non essere più in grado di aprirti alle relazioni.

Quando perdoni lo fai per te stesso

Perché dovresti perdonare una persona che non si mostra pentita e che non intende riparare al suo comportamento?

La risposta è molto semplice: dovresti perdonarla per il tuo bene.

“Il perdono è un regalo che fai a te stesso”

Tony Robbins

A prescindere dal fatto che sia meritato o meno, perdonare qualcuno ti libera dal passato e ti consente di fare spazio al nuovo nella tua vita.

Perdonare qualcuno non implica affatto che tu riprenda necessariamente una relazione come se nulla fosse accaduto.

Puoi perdonare qualcuno anche se hai realizzato di non avere più interesse a mantenere un rapporto con lui/lei. Allo stesso modo, potrai benissimo scegliere di fare entrare di nuovo la persona nella tua vita.

La tua decisione, qualunque essa sia, non toglierà alcun valore al fatto di aver perdonato.

Perdonare non vuol dire annullarsi per l’altro

La distinzione è di capitale importanza: perdonare non vuol dire affatto consentire a qualcuno di continuare a farti del male.

Se così fosse, il perdono si trasformerebbe in un pretesto per autorizzare l’altro a calpestarti e a svalutarti.

Se sceglierai di ammettere di nuovo una persona nella tua vita dopo averla perdonata, la nuova apertura non sarà una conseguenza automatica del perdono, ma dipenderà dal comportamento di quest’ultima.

In questa accezione, il perdono non è una remissione unilaterale ma è un cammino che implica l’interesse e la collaborazione di entrambe le parti.

Colui che viene perdonato, infatti, per guadagnarsi nuovamente fiducia, dovrebbe mostrarsi pentito e offrirsi di riparare in qualche modo al suo comportamento.

La collaborazione dell’altro è assolutamente imprescindibile affinché il rapporto riprenda su basi più salde.

Il perdono verso te stesso

Mettiamo ora il caso che dopo un bel po’ di tempo e un grande lavoro su te stesso, alla fine ce l’abbia fatta: senti di aver finalmente perdonato la persona che ti ha fatto soffrire.

Ormai non hai più alcun desiderio di rivalsa nei suoi confronti e sei pronto a chiudere quel capitolo della tua vita.

Eppure, nonostante tutto, ti sembra di essere ancora incastrato in quella relazione e non riesci a voltare pagina aprendoti di nuovo agli altri come riuscivi a fare prima.

Prova a farti una domanda:

Hai perdonato te stesso?

Può sembrare banale ma spesso quello che ti tiene incastrato in un trauma vissuto è proprio il fatto di non aver perdonato te stesso per come sono andate le cose.

Magari non ti sei perdonato di aver permesso a una persona di ferirti, oppure non ti sei perdonato di non aver capito prima che ti stavi infilando in una situazione che ti avrebbe fatto stare male o di non aver realizzato subito che quella persona non era come sembrava.

Prova a riflettere un secondo. Il fatto di non accettare il passato ti fa stare meglio?

In realtà è vero il contrario: il perdono verso gli altri e ancora di più verso te stesso è l’unico mezzo per far guarire la tua ferita relazionale.

Il perdono, infatti, ti permette di accettare come sono andate le cose, lasciar andare definitivamente una persona e fare spazio di nuovo all’amore nella tua vita.

“Come può uno scoglio

Arginare il mare

Anche se non voglio

Torno già a volare”

“Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi” – Lucio Battisti

Sibilla Ceccarelli

Sigaretta? Smetti con il metodo giusto per te!

Sigaretta? Smetti con il metodo giusto per te!

Sigaretta? Smetti con il metodo giusto per te! Smettere di fumare non è facile, ma con il tuo Coach e il giusto metodo è possibile.

Smettere di fumare mette paura vero? Lo so, vorresti mollare la sigaretta ma non ci riesci. Il solo pensarci ti mette ansia. Tutti i clienti che si sono rivolti a me per smettere di fumare con un percorso di Coaching avevano il terrore negli occhi per un’impresa che sembra irrealizzabile se non a fronte di sacrifici incredibili.

LA MIA ESPERIENZA

Ti capisco perfettamente, perché ci sono passato anche io. Ho fumato una media di 20 sigarette al giorno dall’età di 14 anni fino ai 36.  Non ti annoierò con frasi del tipo “fa male”, “sai che stai danneggiando i tuoi polmoni”, “stai dando un esempio sbagliato ai tuoi figli”, “stai buttando un sacco di soldi”, ecc perché queste cose le sai perfettamente.

Paradossalmente quando ti dicono queste cose ti viene ancor più voglia di accenderti una sigaretta e rinchiuderti nel tuo rifugio fatto di fumo, nicotina e catrame. La sigaretta è una fedele compagna, se fumi un pacchetto al giorno ci trascorri mediamente un’ora e venti minuti al giorno. I fumatori dedicano mediamente lo stesso tempo alle sigarette di quello dedicato al cibo. Incredibile vero?

Per non parlare dei soldi. Fumando una media di 20 ‘bionde’ al giorno, la spesa annua si aggira introno ai 1800€, cifra che aumenterebbe a 118.625 € (nota: considerando un fumatore che inizia a fumare a 15 anni e smette a 80) al netto dell’inflazione. Centodiciottomilaseicentoventicinque euro! Un mare di soldi in fumo.

Tutti questi motivi sono assolutamente logici e i fumatori li conoscono benissimo eppure non smettono. Non sono quelli a fare la differenza. Paradossalmente iniziare a fumare è difficilissimo. La prima sigaretta fa letteralmente schifo. Il sapore è nauseante, i polmoni si ribellano, viene la tosse, la testa inizia a girare. Terribile.

Non conosco un solo fumatore a cui sia piaciuta la prima sigaretta. Anche la seconda, la terza e la quarta non sono meglio. Il corpo si deve abituare a una cosa assolutamente innaturale. A chi verrebbe mai in mente di appoggiare il naso sopra una canna fumaria oppure alla marmitta di un pullman. Eppure il processo è identico.

“La prima sigaretta che ti fuma un bocca, un pò di tosse…” (Claudio Baglioni, Avrai)

La sigaretta al contrario della marmitta fino a qualche anno aveva un grande valore sociale. Nel 1957 il 65% degli uomini in Italia era fumatore. Tutti gli attori più famosi fumano nei loro film, i compagni di scuola più grandi fumano e magari anche i nostri genitori o amici di famiglia.

Era una cosa normale, anzi era qualcosa di più. Era un simbolo di forza per gli uomini. I ragazzini che iniziavano a fumare si sentivano più uomini, mentre per le donne era un simbolo di emancipazione.

Oggi il costume è cambiato anche se la percentuale di fumatori rimane altissima. Non ho mai conosciuto un fumatore che non si sia pentito di aver iniziato. La vita per un fumatore è più difficile. Se fumi lo sai bene. Nei mesi freddi si vedono persone uscire fuori dai bar e ristoranti per riempirsi i polmoni di nicotina e catrame, nonostante il clima ostile.

BACERESTI UN POSACENERE?

Anche i rapporti con i non fumatori possono essere difficili. Chi non fuma trova disgusto  il tanfo che emana un fumatore. Chi è single poi deve essere fortunato a trovare qualcuno che sia disposto a soprassedere al vizio del fumo visto che baciare un fumatore equivale a leccare un posacenere.

L’aspetto più triste di tutta la storia è che l’unico piacere che il fumatore ottiene dalla sigaretta è quello di cercare allo stato di pace, tranquillità e sicurezza che aveva prima di diventarne schiavo. (Allen Carr, È facile smettere di fumare se sai come farlo)

VUOI SMETTERE?

Cerca di capire se smettere di fumare è una tua scelta o meno. Nel momento in cui dici “devo smettere di fumare” ti provochi disagio perché la parola “devo” indica ansia, una scelta non tua, un’imposizione dall’esterno ma non la tua reale volontà. Sostituisci la parola devo con la parola scelgo. Se veramente scegli di smettere, se hai deciso che è arrivato il momento di dare un taglio con questa abitudine allora hai fatto il primo passo verso la liberazione.

HO SCELTO, E ADESSO?

Essendo un Coach umanista, io metto sempre l’attenzione sull’unicità di ogni essere umano e sulla sua consapevolezza. Non esiste una via unica per tutti. Confrontando i risultati di vari percorsi di coaching, ho scoperto che fondamentalmente esistono due modi per smettere di fumare:

METODO 1: ALL IN

questo metodo è per i più coraggiosi. Qui il taglio è netto. Prendi il pacchetto e buttalo via. Da oggi sei un ex fumatore. Stai per iniziare un percorso nuovo e rivoluzionario, non è facile ma sarà fantastico. Non fumerai più, hai scelto la salute.

Non stai rinunciando a nulla, anzi stai guadagnando tanto. Se inizi a pensare ‘non devo fumare’, allora cambia il tuo pensiero e trasformalo in pensiero positivo, per esempio: ‘è una mia scelta’, ‘lo faccio per me’, ‘voglio stare bene’, ‘voglio respirare’, ‘voglio essere libero’. Se dovessi fare fatica, creati una tua oasi, non vedere persone che fumano, allontana le tentazioni, soprattutto all’inizio. Inizialmente gli altri sembreranno non capirti, ma in realtà ti ammirano, ti invidiano, ma non hanno il coraggio di dirtelo.

Riempi la casa di Post-it con su scritte le motivazioni per le quali hai scelto di non fumare più. Sii consapevole, ricordati che stai cambiando un’abitudine, solo quella è la difficoltà. Se ti dovesse venire voglia di fumare, prenditi un minuto per te e chiediti se davvero lo vuoi, scrivi cosa ti passa per la testa e osservati. Lo vuoi davvero o è solo un’abitudine ben collaudata che spinge per essere mantenuta? Ricordati di quanto ci hai messo a iniziare a fumare, qui il percorso è lo stesso solo che ti condurrà alla salute, al respiro e alla libertà. Che la rivoluzione abbia inizio.

METODO 2: STEP BY STEP

C’è un’altra via, meno traumatica ma, osservando i risultati dei miei clienti, ugualmente efficace. Normalmente i fumatori si accendono la prima sigaretta dopo la prima colazione, in particolare dopo aver bevuto il caffè.

Supponiamo che tu sia abituato a fumarti la prima sigaretta alle 8:30. Da domani posticipa l’ora della prima sigaretta alle 11. Non è difficile, ci puoi riuscire. Continua per una settimana. La seconda settimana inizierà posticipando l’accensione della tua prima sigaretta dopo pranzo. Ti renderai conto che non è difficile, anzi. Sarà solo la tua abitudinarietà a farti vacillare, ma credimi ci puoi riuscire senza problemi.

Semmai dovessi trovarti in difficoltà, ricordati i motivi che ti hanno spinto a voler smettere. Nessuno ti obbliga, se la scelta è consapevole, basterà resettarti e ripartire. Noterai come dopo la seconda settimana i benefici saranno evidenti. Pelle, voce, capelli saranno molto migliorati. Nella terza settimana la prima sigaretta verrà accesa a metà pomeriggio tra le 16:30 e le 17.

La quarta settimana concentrerai il tuo vizio dopo cena, mentre la quinta settimana sarà quella senza ‘bionde’. Durante questo percorso scoprirai che puoi vivere benissimo senza sigarette, sarai fiero di te e chi ti vorrà bene sottolineerà i tuoi prodigiosi.cambiamenti.

RIASSUMENDO

In conclusione, indipendentemente da quale metodo ritieni più vicino alla tua persona devo informarti di una cosa importante. Smettendo di fumare non perdi assolutamente niente. Devi esserne consapevole. So che l’idea di non fumare più ti può dare l’idea di un sacrificio o di una rinuncia, ma non è così. La vita non è più divertente se fumi, anzi.

Quando eri bambino non avevi bisogno di fumare per essere felice e anche adesso, quando vai in una spa o fai sport non ti verrebbe mai in mente di fumare. E’ tutto qui. Inizialmente ti sembrerà strano non fumare in talune circostanze in cui eri abituato a tenere in mano una sigaretta, ma è solo abitudine, nulla di più.

Il piacere della sigaretta altro non è che un lavaggio del cervello nel quale ci imponiamo a farci piacere una cosa che di fatto non ci da nulla se non polmoni intasati, malattie, alito fetido, dita ingiallite e un mare di soldi in meno.

 

PUOI FARCELA.

Patrick vom Bruck

La regola del 90/10 per affrontare i problemi

regola

La regola del 90/10 per affrontare i problemi: solo il 10% della nostra vita dipende dagli eventi mentre il 90% dipende da come reagiamo a ciò che ci accade.

Hai notato che alcune persone sono in grado di superare eventi dolorosi traendo dagli stessi nuova forza mentre altre vengono psicologicamente annientate da problemi simili?

Ti sei mai chiesto perché alcune persone si dicono infelici e si lamentano continuamente nonostante non abbiano problemi gravi mentre altre che sono alle prese con situazioni difficili sono propositive e propense al buonumore?

Vediamo la conseguenza logica che possiamo trarre da queste considerazioni.

Quello che è sotto i nostri occhi ogni giorno è che non sono tanto gli eventi o le relazioni a determinare la nostra vita, quanto il modo in cui ciascuno di noi si pone rispetto ad essi.

A parità di situazione, buona o cattiva che sia, ciascuno la interpreterà secondo i propri schemi e risponderà ad essa a modo suo. Ed è proprio cosa facciamo di ogni singola esperienza di vita a determinare la nostra realtà, nel bene e nel male.

Ad esempio, sono i pensieri che abbiamo rispetto a una prova da affrontare che determineranno le nostre emozioni.

Il nostro modo di vederla – come un problema oppure come un’opportunità – e il nostro conseguente stato emotivo potrà ostacolare oppure favorire la qualità della nostra performance.

“Le persone efficaci non sono orientate ai problemi; sono orientate alle opportunità. Esse nutrono le opportunità ed affamano i problemi.”

Stephen R. Covey

Considerazioni come queste hanno ispirato il noto uomo d’affari statunitense Stephen R. Covey, che ha elaborato la c.d. “regola del 90/10”.

Secondo questo principio, gli avvenimenti influiscono sulla nostra vita per il 10%, mentre il restante 90% è determinato dalla nostra reazione rispetto ad essi.

Per dirla in altre parole, la qualità della nostra vita dipende da noi per il 90%.

Ogni persona può rispondere a un medesimo stimolo in modo diverso ed è proprio questa risposta che determinerà il corso successivo delle cose.

Di fronte ad ogni problema, dal più banale al più significativo, esistono due tipi di approccio.

Si può concentrare l’attenzione sul problema, che fa parte di quel 10% che non è sotto il nostro controllo, oppure sulla nostra risposta al problema, che rappresenta il 90% ed è nelle nostre mani.

Logicamente, i risultati che discenderanno dai due atteggiamenti saranno molto diversi.

Nessuno potrebbe dare torto a coloro che impiegano tempo ed energie per ricordare a se stessi e al resto del mondo i motivi per i quali un problema è così grande e difficile da superare.

Se è vero che il problema esiste, non si può negare che costituisca un ostacolo lungo la strada. È altrettanto vero che sia necessario analizzarlo nei suoi aspetti per poterlo risolvere, ma se si lascia troppo spazio al problema, si finisce per diminuire le concrete possibilità di superarlo.

L’attenzione viene infatti distolta dalla ricerca attiva di una soluzioneper essere concentrata su quel 10% su cui non abbiamo potere.

L’approccio di chi invece concentra l’attenzione sulla ricerca della soluzione è di certo più produttivo, in quanto mantiene il focus su quel 90% che è nelle nostre mani.

“Tra lo stimolo e la risposta, c’è la libertà di scegliere.”

Stephen R. Covey

Cosa succede nel caso in cui il problema non abbia una soluzione vera e propria?

Ebbene, anche in questo caso l’atteggiamento mentale è determinante.

Ricordare che il 90% della nostra vita dipende dalla nostra reazione può aiutarci a vedere ogni difficoltà da un’altra prospettiva.

Esistono persone che sono riuscite a cogliere nuovi risvolti di una situazione negativa e a utilizzarla come carburante per avanzare nella loro crescita personale e superare i loro limiti.

Penso a persone straordinarie come Alex Zanardi Bebe Vio. Questi atleti sono riusciti a trasformare il fatto di aver subito una menomazione fisica in un’occasione di autosuperamento e crescita personale.

Naturalmente, il discorso è ancor più valido nel caso di problemi di portata oggettiva minore.

“Possiamo trovare una soluzione migliore di quella che ognuno di noi ha in mente. Sei disposto a cercare una Terza Alternativa alla quale nessuno di noi ha mai pensato prima?”
Stephen R. Covey

Se terrai a mente questa semplice regola, la prossima volta che ti troverai in una situazione che non è sotto il tuo controllo, sarai comunque in grado di influenzare il tuo contesto senza rimanere vittima di quel 10% su cui non hai potere.

 

Sibilla Ceccarelli – Coach

sibilla@coach2coach.it

Amore eterno: è davvero un’utopia?

Amore è eterno, davvero un utopia?

Amore eterno: è davvero un’utopia? La differenza tra innamoramento e amore e i presupposti per una relazione felice e durevole.

L’amore è eterno o passeggero?”, “Cosa significa amare?”Probabilmente nella tua vita ti sarà capitato di porti domande del genere.

“L’amore non è un oggetto preconfezionato e pronto per l’uso. È affidato alle nostre cure, ha bisogno di un impegno costante, di essere ri-generato, ri-creato e resuscitato ogni giorno. Mi creda, l’amore ripaga quest’attenzione meravigliosamente. Per quanto mi riguarda (e spero sia stato così anche per Janina) posso dirle: come il vino, il sapore del nostro amore è migliorato negli anni.”

Zygmunt Bauman  (“La Repubblica” del 20.11.2012)

Così il noto sociologo parlava in un’intervista del sentimento che lo ha legato alla moglie Janina per ben 62 anni.

Esempi come questo ci inducono a pensare che l’amore, in rari casi, possa anche durare una vita.

Tuttavia c’è un punto essenziale sul quale spesso capita di fare confusione: la differenza tra innamoramento e amore.

L’innamoramento

Quando nasce una relazione, le sensazioni che si provano sono meravigliose, inebrianti.

L’innamoramento è un processo chimico vero e proprio che ti rende quasi dipendente, mentalmente e fisicamente, dal tuo nuovo partner. Il tempo e lo spazio iniziano a essere irrilevanti.

Hai presente quando sei in un locale con il tuo nuovo “lui” o la tua nuova “lei”, tutti i rumori di sottofondo spariscono e all’improvviso, guardando l’orologio, ti accorgi che state seduti da tre ore e non ci avete fatto caso? Ci sei passato sicuramente. Si chiama “flow”.

Tutto il mondo inizia a ruotare intorno a questa persona, che magari fino a poco tempo prima neanche conoscevi, con la quale vorresti condividere ogni singolo momento della giornata e con cui inizi a fantasticare sul futuro, immaginando di poter proiettare questa meravigliosa sensazione all’infinito.

Sei in pieno “innamoramento”! Splendido vero?

“L’amore è eterno finché dura”

Magari in questo momento starai pensando: “sì, d’accordo ma poi tutto il resto è noia. Va sempre così. Lo cantava pure Califano.”
È vero, può succedere, ma la regola non è esente da eccezioni. Esistono coppie che durano, ma soprattutto, esistono coppie che durano e sono felici.

“Vabbè sono fortunate!” è la possibile obiezione.

Si, potremmo sicuramente considerarle fortunate, ma c’è di più.

Ovviamente non stiamo parlando delle coppie che si trascinano litigando per i centri commerciali la domenica, ma di coppie che sono emotivamente vicine e che si nutrono vicendevolmente di amore.

Il punto è che le coppie felici non vivono un innamoramento permanente ma vivono “nell’amore”. La differenza è fondamentale.

La conoscenza del partner

Le persone che dopo un innamoramento travolgente si ritrovano a non sopportare più il partner di cui prima erano pazzi probabilmente hanno saltato un passaggio importante.

Hanno confuso l’innamoramento con l’amore, e si sono persi lo step che si trova proprio nel mezzo e si chiama conoscenza.

È la conoscenza che deve essere coltivata e curata. È la conoscenza consapevole che può portare all’autentica condivisione di un sentimento di amore tra due persone.

Innamoramento vs amore

L’innamoramento spesso può celare un tentativo di fuga da se’ e di soddisfazione di quelle esigenze che non si è in grado di soddisfare da soli.

L’amore, al contrario, si fonda su una conoscenza profonda e consapevole di se stessi e del proprio partner e dunque della coppia.

Quando ci si innamora spesso si finisce per proiettare più o meno inconsapevolmente sull’altro l’immagine di un partner ideale che soddisfi i propri bisogni emotivi.

È naturale come possa subentrare facilmente la noia e la disillusione. Si scopre infatti ben presto che il partner è a sua volta una persona con le proprie esigenze e fragilità e un analogo desiderio di essere amato per ciò che è realmente, nella sua essenza.

Solo se l’iniziale innamoramento sia accompagnato da una conoscenza reale di chi hai di fronte, si potrà distinguere se si tratta di un’emozione passeggera oppure di un incontro d’anime affini da cui può nascere una relazione d’amore.

Spesso si dice “ti amo” o peggio ci si sposa con persone che di fatto non si conoscono e questo ci condanna a essere infelici.

Tu e il tuo partner condividete gli stessi valori? Avete obiettivi di vita comuni o comunque armonici tra di loro? Stimi il tuo partner? ci sono caratteristiche di lui/lei che proprio non puoi sopportare?

Interrogativi di questo tipo sono importanti soprattutto all’inizio di una relazione perché ti consentono di distinguere se l’infatuazione iniziale è destinata a lasciare spazio alla noia oppure ci sono i presupposti per la nascita di una relazione di valore.

Se, una volta conosciuta una persona, ti accorgi di non amarla per quello che realmente è, di non condividere con lei obiettivi di vita e valori, allora non è sbagliato interrompere la relazione.

Questa decisione sarà una vera e propria liberazione per te e per il partner e non ci sarà nulla di sbagliato.

L’errore semmai è da rintracciarsi all’inizio della relazione quando l’innamoramento si è confuso con l’amore tralasciando una conoscenza approfondita dell’altro.

La consapevolezza

Ma non è tutto. Conosci te stesso? Perché stai iniziando una relazione? Conoscere l’altro è essenziale, ma ancor più importante è la consapevolezza circa le tue esigenze, i tuoi punti di forza e le tue vulnerabilità.

Se ad esempio stai cercando una storia d’amore a tutti i costi per evitare la solitudine e colmare un senso di vuoto, allora sarà impossibile costruire una relazione sana ed equilibrata.

In questo caso finirai per investire il partner dell’impossibile compito di “salvarti” dalle tue insicurezze e fragilità. La relazione che ne nascerebbe sarebbe asimmetrica, non alla pari.

La conoscenza è solo il punto di partenza

La conoscenza iniziale è un presupposto necessario ma non sufficiente affinché il sentimento d’amore possa nascere e perdurare.

In ogni storia d’amore, infatti, possono intervenire dei cambiamenti che possono minare la solidità della coppia.

Nuovi interessi, cambiamenti di lavoro o l’arrivo di un figlio possono alterare le dinamiche della relazione e far nascere l’esigenza di un nuovo equilibrio che sia funzionale per il suo benessere.

La riscoperta quotidiana del partner

Per questo motivo è così importante dedicare del tempo al piacere di una quotidiana riscoperta del partner e al rinnovamento della coppia.

Ogni individuo è in costante cambiamento ed evoluzione e questo fenomeno riverbera i suoi effetti anche sugli equilibri della relazione.

Con questa speciale attenzione, il sentimento può evolversi e diventare sempre più profondo con il passare del tempo.

In sostanza, l’amore è solo un punto di partenza da cui iniziare uno splendido viaggio, non una meta.

Per concludere con le parole di Erich Fromm: “L’amore, sentito così, è una sfida continua; non è un punto fermo, ma un insieme vivo, movimentato, anche se c’è armonia o conflitto, gioia o tristezza, è d’importanza secondaria dinanzi alla realtà fondamentale che due persone sentono se stesse nell’essenza della loro esistenza, che sono un unico essere essendo un unico con se stesse, anziché sfuggire se stesse…”

Sibilla Ceccarelli e Patrick vom Bruck

Sentirsi intrappolati dai propri pensieri

pensieri

Sentirsi intrappolati dai propri pensieri. L’overthinking o ruminazione mentale può renderti ostaggio dei tuoi pensieri ed impedirti di agire.

Pensare o “ruminare”?

“Anche stavolta non ci riuscirò” , “non ce la posso fare” , “perché è successo proprio a me?”

Ti capita spesso di ripetere nella tua mente frasi del genere entrando in un vero e proprio loop?

Probabilmente sei nel tunnel dell’overthinking.

Come distinguere il normale flusso di pensieri dall’overthinking?

Nell’arco della giornata i pensieri ci accompagnano praticamente in ogni istante. Nella nostra mente si alternano valutazioni, ricordi, credenze creando un costante dialogo interiore. Secondo gli scienziati si compiono circa 60.000 pensieri al giorno. Fin qui niente di strano. Basta considerare che tutto quello che ci accade e ogni cosa o persona in cui ci imbattiamo è oggetto di analisi e valutazione. È proprio questa valutazione a determinare le nostre emozioni e le nostre azioni conseguenti. Se per esempio ci accade qualcosa che reputiamo spiacevole, proveremo paura o un’altra emozione negativa ed agiremo in modo da evitare che questa situazione si ripeta nella nostra vita. Se invece, per ipotesi, incontriamo per strada una persona che consideriamo simpatica, potremo provare una sensazione piacevole che magari ci farebbe decidere di organizzare presto un’uscita in sua compagnia.

La facoltà di pensare è senza dubbio la nostra più grande risorsa. Grazie al ragionamento riusciamo a risolvere i problemi ed a ottenere tutto ciò di cui abbiamo bisogno e che ci fa stare bene.

In alcuni casi, però, può capitare che i pensieri ci intrappolino in una spirale di negatività impedendoci di agire.

Le caratteristiche dell’overthinking.

Overthinking o ruminazione sono i termini utilizzati per indicare l’atto di pensare troppo. La ruminazione è un flusso di pensieri ripetitivi e invasivi accompagnato da emozioni quali ansia e angoscia.

La caratteristica che rende così nocivo questo eccesso di pensiero è la sua inconcludenza. Il lavorìo continuo di pensieri negativi, invece di aiutarci a fare chiarezza, ci allontana dalla soluzione dei problemi e ci fa perdere la concentrazione.

I segnali che ti dicono che sei nella spirale dell’overthinking

Sei vittima dell’eccesso di pensiero se:

i pensieri che ti passano per la testa sono sempre gli stessi e sono accompagnati sempre dalle stesse emozioni negative;

i pensieri non facilitano mai la risoluzione del problema ma, al contrario, non arrivano mai a una conclusione;

non riesci ad evitare che i pensieri ricorrenti invadano di continuo la tua mente.

Spesso, poi, l’overthinking può avere effetti negativi anche sul sonno.

Perché capita di entrare nel loop della ruminazione?

Quando una circostanza della nostra vita ci preoccupa, può accadere che l’ansia e l’angoscia prendano il sopravvento sui nostri pensieri. In questo caso si innesca un circolo vizioso di pensieri negativi che si rincorrono come su una ruota da criceto.

“Come faccio a risolvere questo problema?” ,“Tanto non ci riuscirò!” ,“Ne voglio uscire il prima possibile!”

Non tutte le circostanze che interessano la tua vita sono sotto il tuo pieno controllo.

Ad esempio, un figlio che rischia di essere bocciato a scuola oppure un problema di salute sono situazioni la cui risoluzione non dipende esclusivamente da te.

Eppure, a volte può capitare di illudersi di avere la soluzione completamente nelle proprie mani.

Pensare in modo ripetitivo, in questi casi, non porta da nessuna parte, anzi, fa perdere lucidità. La ruminazione ti paralizza impedendoti di fare tutto ciò che in tuo potere per favorire la soluzione del problema.

“Perché doveva succedere proprio a me?”

Rispetto ad eventi negativi che accadono nella vita non sempre è facile trovare un senso che trascenda l’accaduto stesso. In questi casi è molto facile cadere nel loop dei pensieri negativi.

“Tanto non sono in grado”, “cosa staranno pensando di me?”

La cattiva abitudine di mettere continuamente in dubbio le proprie capacità dovuta a una scarsa autostima può favorire l’innescarsi di un dialogo interiore fatto di pensieri negativi. Frasi del genere che ripeti in modo ossessivo come se fossero un mantra, ti fanno perdere la concentrazione e dunque ti allontanano dal raggiungimento dei tuoi obiettivi.

Come superare L’overthinking

Per interrompere il flusso di pensieri negativi occorre allenare la consapevolezza e la capacità di essere presenti nel qui e ora. A tal fine può essere utile esercitarsi ripetendo mentalmente tutte le azioni concrete che compi nella vita di tutti i giorni.

Se ad esempio stai svolgendo l’attività di pulire la tua casa, anziché permettere che i tuoi pensieri si allontanino dall’azione per tornare ad assillarti con le stesse tematiche, puoi provare a concentrarti su quello che stai facendo e su ogni sensazione che stai provando in quel preciso istante.

Anche le tecniche di meditazione e di mindfulness possono incrementare la capacità di concentrazione sul momento presente.

Per superare l’overthinking, in certi casi, può essere utile e importante recuperare energie attraverso attività ricreative. Un po’ di svago dal lavorìo continuo dei pensieri favorisce la creatività necessaria a trovare soluzioni e significati nuovi per affrontare qualunque tipo di problema.

Nel caso in cui il loop di pensieri negativi ti stia paralizzando dall’agire, puoi aiutarti elencando su un foglio tutte le azioni possibili per uscire da una determinata situazione con i relativi aspetti positivi e negativi. Mettere per iscritto le varie opzioni ti permetterà di  fare chiarezza nei tuoi pensieri e decidere le azioni da intraprendere.

Sibilla Ceccarelli

Parlare in pubblico: perché a volte fa paura?

Parlare in pubblico, perchè a volte fa paura?

Parlare in pubblico: perché a volte fa paura? Come superare la paura di parlare di fronte a una platea e trovare il proprio stile comunicativo.

Parlare in pubblico non fa per me”, “Ci riuscirò stavolta?” “Cosa penseranno di me?”, “Sarà un disastro”.

Quante volte ti è capitato di ripetere a te stesso frasi del genere al solo pensiero di dover parlare dinanzi a una platea?

Parlare in pubblico può fare paura esattamente come ogni nuova sfida che la vita ci presenta. È assolutamente normale.

La paura è un aspetto della nostra vita così come di quella degli animali. É un’inseparabile compagna che si presenta in ogni situazione critica o che reputiamo tale.

Nonostante possa apparire come un’emozione assolutamente inutile e detestabile, la paura in realtà ha una funzione importantissima: quella di preservarci dal pericolo. Quante volte questa emozione ci ha salvato la vita evitando che commettessimo imprudenze?

La paura dunque ha una sua ragione di esistere. Occorre solo diminuire la sua influenza ed evitare che essa ci paralizzi impedendoci di compiere azioni che possono essere importanti per la nostra realizzazione professionale e non solo. Il parlare dinanzi a una platea è senza dubbio una di queste.

Paura del giudizio del pubblico

Quante volte ti è capitato di giudicare severamente un oratore, attore o professore?

Ora tocca a te e non vedi proprio per quale motivo il tuo pubblico non dovrebbe criticarti come ti sei trovato a fare tu in tante occasioni.

Quando ti trovi a parlare in pubblico, la paura di non riuscire a controllare l’ambiente circostante e di essere giudicato negativamente può paralizzarti e farti provare una sensazione sgradevole.

Tuttavia, anche se in quel momento ti percepisci del tutto impacciato, non è detto che gli altri percepiscano tutto il tuo disagio e che comunque siano severi come te nel giudizio.

In ogni caso, occorre partire dal presupposto non possiamo piacere a tutti.

Nessun uomo di talento ha mai ricevuto consensi unanimi sulle sue performances. Ognuno di loro, invece, ha avuto degli haters pronti a rilevarne la presunta incompetenza.

Iniziamo quindi a ridimensionare l’importanza che diamo al giudizio del pubblico che è puramente soggettivo esattamente come il nostro.

La paura non va combattuta ma gestita

Per poter superare la paura occorre prima di tutto accettare il suo messaggio seppur senza dargli retta,  proprio come faresti con un amico che la pensa diversamente da te.

Cercare di combattere la paura del parlare in pubblico è inutile e controproducente. Sarebbe come dare gas a una macchina con il freno a mano tirato; raddoppieresti la fatica e lo stress ma non otterresti i risultati sperati.

Se ti concentri sul voler combattere la paura finisci per esserne del tutto dominato. In questo modo, infatti, dirigi la tua attenzione proprio su quello che vuoi evitare, aumentando di fatto le possibilità che la situazione temuta si avveri.

Allora come è possibile superare il timore della platea?

Il Flow

“Avrò qualcosa di interessante da dire?” “Come sto andando?” “Non sono in grado di parlare davanti a questa gente!”

Quando ci autosserviamo mettendo in dubbio le nostre capacità, distogliamo l’attenzione da quello che stiamo facendo per rivolgerla verso noi stessi.

Pensieri di questo tipo sono interferenze che fanno perdere la concentrazione penalizzando il risultato delle nostre azioni.

L’ansia sale e la nostra attenzione si frantuma fra quello che facciamo e il dubbio di non riuscire a farlo.

Inoltre, qualunque pensiero negativo sarebbe solo una nostra opinione e, in quanto tale, del tutto soggettiva e confutabile.

L’abitudine di mettere costantemente in dubbio le tue qualità ti fa disperdere energie preziose sia in fase di preparazione del discorso che durante l’intervento vero e proprio.

Per raggiungere qualunque obiettivo occorre invece uscire da sé per mantenere il focus su tutto ciò che è possibile e necessario fare per dare il massimo.

Quando ti ritrovi a scordarti di te stesso perdendo la concezione del tempo e dello spazio, sei nel c.d. “ flow” (letteralmente: flusso).

Quando sperimenti questa situazione ottimale, sei completamente dedicato e concentrato sull’attività che stai svolgendo.

“Cosa posso fare per preparare un ottimo discorso?” “Come può essere utile quello che intendo dire al mio pubblico?”

Questo tipo di interrogativi possono aiutarti a mantenere l’attenzione su ciò che è necessario fare ai fini di un buon public speaking.

L’allenamento

“Allenarsi significa progettare e realizzare, sperimentare e imparare, ripetere e ancora ripetere fino a che la sequenza successiva di azioni non sia migliore della precedente”

Luca Stanchieri

Per affrontare le nuove sfide che la vita ci presenta, occorre un buon allenamento.

Per imparare a gestire la paura di parlare in pubblico, dunque, è necessario che ti alleni costantemente a farlo, sebbene questo ti scateni reazioni emotive.

Puoi iniziare ad esercitarti nel parlare davanti a un piccolo pubblico, magari composto da genitori, partner e persone con cui ti senti a tuo agio, con i quali esercitarti e dai quali ricevere feedback. Si comincia!

Sei preparato?

La televisione in alcuni casi può essere un deterrente rispetto alla volontà di sperimentarsi nel parlare in pubblico.

Osservando Benigni, Grillo, Fiorello, Bonolis e altri professionisti potresti infatti spaventarti e pensare che per parlare dinanzi a una platea occorra improvvisare come sembrano fare loro. Queste persone, ognuna con il suo stile, riescono a parlare per ore tenendo alta l’attenzione della platea, spesso senza neppure un foglio in mano.

Va però considerato che tutti loro sono preparatissimi rispetto al lavoro che sono chiamati a svolgere.

Quello che dicono, che può sembrare spontaneo e frutto d’improvvisazione, ha in realtà alle spalle una lungo lavoro di preparazione, svolto non solo da loro ma anche e soprattutto da validissimi collaboratori che lavorano nell’ombra.

Quindi prepara bene cosa vuoi dire! Non pretendere da te stesso di dover improvvisare ogni singola parola del tuo discorso.

Fai uscire fuori chi sei veramente

Essere entusiasti ed estroversi non è di per sé motivo di successo nel parlare in pubblico.

Esistono celebri uomini di spettacolo che hanno uno un modo di parlare e di essere più pacato e rassicurante. Il loro stile comunicativo, tuttavia, non è affatto meno efficace di quello dei professionisti dalla personalità istrionica.

Quello che conta è che tu sia autentico, anche di fronte a una platea.

Qualunque forzatura nel tuo modo di parlare e di comportarti, infatti, risulterebbe innaturale e verrebbe percepita negativamente dal pubblico.

Anche dei piccoli difetti linguistici o inflessioni dialettali possono diventare dei segni distintivi che ispirano simpatia in quanto sono espressioni di spontaneità.

Trova il tuo stile comunicativo partendo dal tuo modo di essere e valorizzando la tua originalità.

La verità è la migliore arma di persuasione

Conosciamo tanti venditori che ci accolgono con un sorriso smagliante e con fare seduttivo ma li scansiamo regolarmente perché percepiamo che il loro scopo è venderci qualcosa, a prescindere dalla qualità del prodotto o servizio sponsorizzato.

Pensa però alle volte in cui ti sei trovato a parlare a qualcuno di un professionista o di un esercizio commerciale con cui ti sei trovato bene. In quel caso sarà bastato essere te stesso per convincerlo della bontà del tuo messaggio.

L’aspetto decisivo che riesce a rendere vincente la comunicazione è dunque la convinzione in ciò che si dice e la convinzione nasce dall’aderenza alla realtà.

Ogni volta che parli di fronte a una platea, il tuo atteggiamento mentale influenza anche quello dei tuoi ascoltatori. Per suscitare sensazioni positive bisogna credere profondamente in ciò che si dice, mostrando spontaneità e sincerità.

Se non credi pienamente in ciò che dici, perché dovrebbe crederci il tuo pubblico?

Le persone amano, più di qualunque altra cosa, la realtà. Se poi questa realtà è la vita stessa dell’oratore allora parlare in pubblico diventa ancora più efficace.

Riassumendo, il segreto per attuare un Public Speaking davvero efficace è quello di parlare del proprio background.

Racconta qualche episodio della tua vita e catturerai l’attenzione del pubblico in sala risultando autentico e dunque affidabile.

Comincia a sperimentarti nel parlare in pubblico e vedrai che con un po’ di impegno e allenamento i risultati che puoi ottenere sono impressionanti. Provaci…funziona!

Patrick vom Bruck

Lamento, un nemico da sradicare

Lamento, un nemico da sradicare

Lamento, un nemico da sradicare. Lamentarsi è inutile, improduttivo e distoglie energie preziose alla nostra vita. Vediamo come eliminarlo definitivamente.

Il lamento è parte della nostra vita quotidiana, è ovunque dentro e fuori di noi. Ormai siamo talmente abituati a lamentarci e sentire altri lamentarsi che non ci facciamo neanche più caso.

Nell’arco di una giornata ci confrontiamo sempre con questa brutta bestia. Non ci credete?

“Lamentarsi è non vedere tutte le porte aperti davanti a te, ma fissarsi sull’unica porta chiusa.” (R. Potocniak)

Partiamo dalla mattina. Appena svegli non mancano le occasioni di lamento: l’ora della sveglia, le poche ore di sonno, le cose che mancano per fare colazione, il nostro partner o i nostri figli che sono in ritardo, il clima (pioggia, freddo, troppo caldo) ecc.

Le cose ovviamente peggiorano quando a lamentarsi sono più componenti della famiglia. L’energia necessaria per iniziare la giornata viene così consumata in buona parte per passare in rassegna tutti i buoni motivi che abbiamo per sentirci infelici.

Uscendo di casa le cose peggiorano e il lamento aumenta. Dal traffico, al degrado, alle notizie che sentiamo alla radio, allo stato dei mezzi pubblici, al lavoro, al capo, ai colleghi, ai politici, ai dipendenti di poste/banca/bar/negozio. La cosa peggiore è che abbiamo dei validi alleati che alimenteranno costantemente il sacro fuoco del lamento. Questi alleati possono essere i colleghi, gli amici oppure perfetti sconosciuti che ci intossicano di negatività al bar, alla posta e così via.

Finito il lavoro, le cose non vanno meglio. Ancora il traffico, la cena, la famiglia, i figli, il sesso che non ci soddisfa o magari il nostro aspetto estetico, tutto può essere causa di lamento oppure motivo per ascoltare le lamentele altrui o entrambe le cose.

Le persone che si lamentano possono essere di tre tipi:

  • Quelli che si lamentano di loro stessi. Qui il lamento è autoriferito, ci si lagna di alcuni o tanti aspetti della vita, ma senza una reale volontà di cambiarla. Esempio: “non mi sento bene, mangio e fumo troppo.” – Perché non smetti di fumare e segui una dieta? “No, non ce la faccio. Troppo difficile. Poi sto vivendo un periodo stressante.” Allora prova a smettere quando sei in vacanza? “Ma che sei matto? Almeno in vacanza fammi godere la vita.”
  • Quelli che si lamentano del mondo esterno. Qui il lamento è concentrato su ciò che ci circonda e che viene individuato come la causa dei problemi del ‘lamentoso’. Ovviamente il lamento è fine a se stesso, non si fa nulla per cambiare l’oggetto del lamento o per modificare la propria situazione. Esempio: “l’Italia fa schifo, non funziona niente. Se vivessi altrove sarebbe tutto più facile e sarei più felice.” – Perché non ti trasferisci? “Ormai sono troppo vecchio, poi alla fine qui ho gli amici.”
  • Quelli che si lamentano di TUTTO. E questi sono la maggioranza. Tutto o quasi va male. Quante volte avete detto o sentito questa frase: “non riesco in nulla”, “tutto va male”, ” non posso riuscirci”, “è impossibile”?

Ma cos’è veramente un lamento? Quali vantaggi ci offre?

Il lamento è:

Garanzia d’insuccesso

Queste frasi sono un’assoluta e inevitabile garanzia di insuccesso per chi le pronuncia e per chi se ne fa contagiare. Al 100%. In Italia nel 2015 le persone con un capitale superiore al milione di euro sono aumentate del 7%. Quante di queste persone avranno passato le loro giornate a lagnarsi dell’Euro, del traffico, dei politici? Credo nessuno. Piuttosto me le immagino impegnate a creare, inventare qualcosa che abbia uno scopo e intente a trasformare una congiuntura negativa in una opportunità di crescita

Bufala

Le lamentele non solo sono una sicura fonte di insuccesso, ma sono fondamentalmente false. Chiunque dice “va tutto male”, “la vita fa schifo”, “non riesco mai in quello che faccio” è un bugiardo inconsapevole e un untore di negatività. Sia chiaro, non sto dicendo che non esistono problemi e difficoltà, sarei un pazzo. Tuttavia prendiamoci un momento per osservare la nostra vita. Va davvero tutto male? Non c’è proprio nulla di bello è positivo? Vi do qualche indizio: figlio/i, nipote/i, madre, padre, nonna/o, amici, cane, gatto, salute, lavoro, casa, calcio, tennis, cibo, cinema, musica ecc. Analizzate ognuno di questi punti. Dubito seriamente che sia tutto irrimediabilmente negativo. Non solo, la lamentela è CONTAGIOSA. Lamentandoci contageremo chi ci ascolta, danneggiandolo. Ne vale la pena?

Inutile

La lamentela è assolutamente, irrimediabilmente e definitivamente improduttiva. Non conosco una sola persona che ha mai tratto un beneficio pratico, fisico e spirituale dal lamento. Lamentarsi ci costa energia, anche perché spesso ci sentiamo in obbligo di giustificare la bontà del nostro lamento. Spesso assistiamo a discussioni in cui qualcuno s’impegna strenuamente a convincere chiunque abbia osato mettere in dubbio la fondatezza della sua lamentela. E anche se la convince cosa ci guadagna? ASSOLUTAMENTE NULLA

Difficile da sradicare

Come uno sportivo che si allena tutti i giorni per anni al fine di ottenere risultati eccezionali, anche un lamentoso è molto allenato. Lamentarsi più o meno costantemente ogni giorno, ogni mese, ogni anno ha richiesto molto allenamento anche se, purtroppo, questo è stato inconsapevole.

Per togliere questo vizio bisogna allenarsi duramente. I primi giorni saranno difficili, vi sentirete persi e, visto che spesso ci lamentiamo in compagnia, strani. È incredibile ma le persone tendono a diffidare di chi non si lamenta mentre si sentono in sintonia con chi è negativo, un po’ perché gli somiglia un po’ perché li fa sentire migliori.

Come uscirne?

  • RICONOSCIMENTO. Osservatevi bene, siete lamentosi? Esserne consapevoli è il primo passo.
  • ALLENAMENTO. Quando iniziate a lamentarvi, riconoscete che lo state facendo e fermatevi. Non colpevolizzatevi, ma allenatevi a impiegare le energie che solitamente investite nel lamentarvi in pensieri e attività finalizzate a migliorare la vostra situazione presente o a realizzare obiettivi nel futuro e noterete che gradualmente la spinta a lamentarvi diminuirà. Inizialmente sarà difficile, ma basta allenarsi e ci riuscirete
  • ALLONTANAMENTO. Lavorare su di noi è il primo passo, ma poi bisogna agire sull’ambiente che ci circonda. Allontanando da noi le persone lamentose elimineremo la negatività che ne deriva. Questa negatività è altamente tossica, ci fa sentire male fisicamente e psichicamente e, come detto, è assolutamente inutile. Allontanarsi da chi ci circonda non è sempre facile, va fatto gradualmente.

Forse vorreste obiettare che non sempre ci è possibile allontanare le persone lamentose. Può ad esempio accadere che si tratti di familiari, colleghi o dei propri superiori sul posto di lavoro. Ebbene in questi casi l’importante è non farsi scalfire dalle continue lamentele evitando di alimentarle e di prestarvi attenzione. Un tale comportamento farà capire a chi avete intorno che non intendete esserne voi i destinatari. Vedrete che questo lavoro di allontanamento porterà grandi risultati non solo su di voi, ma ne trarranno beneficio anche le persone che vi sono più vicine.

Non siete ancora convinti che sia il caso di eliminare il lamento dalla vostra vita?
Pensate a tutte le energie mentali che impiegate focalizzandovi costantemente su ciò che non va in voi e al di fuori di voi e ora immaginate quante cose potreste realizzare e quanti più obiettivi potreste raggiungere investendo le stesse energie in pensieri più costruttivi, orientati al miglioramento della situazione presente e alla realizzazione dei vostri desideri.

UNA VITA PRIVA DI LAMENTI È UNA VITA MIGLIORE

Patrick vom Bruck

patricklifecoach@gmail.com