Potenziare l’autostima per instaurare relazioni felici e appaganti

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Potenziare l’autostima per instaurare relazioni felici e appaganti. Una giornata di formazione al Centro Antiviolenza Erize per allenare l’autostima e la cura di sé

Lo scorso 4 maggio, la Psicologa e Psicoterapeuta Rita Zumbo ha tenuto un seminario esperienziale presso il centro antiviolenza M. A. Erize sull’autostima.

Abbiamo già visto nei precedenti incontri come la bassa autostima accomuni sia il narcisista che il dipendente affettivo: Il dipendente affettivo crede di non essere “abbastanza” da meritare amore, mentre il narcisista non è in grado di tollerare che venga messa in discussione in qualche modo la sua persona. Entrambi, quindi, sono dipendenti dall’approvazione altrui e non sono in grado di accettare e accogliere loro stessi così come sono, con pregi e difetti.

Per superare tali disturbi, quindi, è necessario lavorare sull’amore e il rispetto che ognuno di noi nutre verso se stesso.

Aumentare l’autostima diventando più sicuri e consapevoli di se stessi è un passaggio fondamentale per lasciare alle spalle relazioni disfunzionali causa di tanta sofferenza e iniziare un nuovo capitolo della propria vita.

Come fare?

Per prima cosa iniziando a prendersi cura di se stessi, perché la cura è l’inizio della guarigione.

“La verità è che l’unica persona con cui passeremo tutta la nostra vita siamo noi stessi”. (cit)

Prendersi cura vuol dire nutrire qualcuno con un’attenzione amorevole; proprio come faremmo con un bambino che vogliamo far crescere sano o con una pianta che vogliamo rendere rigogliosa.

Prima di esplorare il concetto della cura di sé occorre però chiarire cosa si intende per autostima, parola diventata ormai di uso comune ma di cui spesso non si conosce il vero significato.

L’autostima

Già scomponendo la parola auto-stima, possiamo comprendere come essa faccia riferimento a una valutazione che ogni individuo compie di se stesso e come in realtà non abbia nulla a che fare con la stima altrui, proveniente dall’esterno. Eppure, una caratteristica di chi ha una bassa autostima è proprio quella di far dipendere l’idea che ha di sé dall’approvazione degli altri.

Ognuno di noi, nell’arco della propria vita, si forma un concetto di sé che è soggettivo, cioè non corrisponde necessariamente alla realtà oggettiva. Ad esempio, una persona potrebbe essere convinta di non essere brava nel suo lavoro nonostante abbia continue dimostrazioni dall’esterno delle sue ottime capacità e viceversa.

L’autostima ha una serie di corollari ad essa collegati; allenando l’autostima, infatti, è possibile sviluppare:

  • l’autocontrollo, ovvero la capacità di controllare le emozioni;
  • la fiducia in se stessi;
  • l’autoregolazione, cioè la padronanza dei propri comportamenti;
  • il senso di autoefficacia, cioè la consapevolezza circa l’efficacia dei propri comportamenti;
  • l’autorealizzazione, ovvero la spinta a realizzare se stessi nell’ambito di un progetto di vita che punti alla felicità.

Possibili cause di una scarsa autostima

A formare l’idea che ognuno ha di sé contribuiscono le relazioni con le figure genitoriali e le successive esperienze di vita.

Ogni bambino, per sviluppare una solida autostima, deve sentirsi approvato dai genitori. Se questo non avviene, la necessità di approvazione altrui non finirà con il periodo dell’infanzia ma resterà una costante nella vita dell’individuo. Tale dinamica lo renderà di fatto dipendente dall’accettazione esterna, facendo entrare una grande sofferenza nella sua vita.

L’autostima, infatti, riflette la valutazione operata dall’individuo delle sue esperienze e comportamenti passati e questa influenza i suoi comportamenti futuri. Se ad esempio fin da piccoli ci hanno continuamente ripetuto i nostri difetti senza mai darci conferme positive, è probabile che finiremo per convincerci di essere “sbagliati” e leggeremo tutte le successive esperienze in chiave negativa, trovando in esse conferma della nostra presunta inadeguatezza. Questa convinzione negativa, inoltre, ci predisporrà a mettere in atto comportamenti che faranno sì che nella nostra vita si ripetano situazioni che confermino tale idea.

In altre parole, l’autostima è la valutazione del nostro concetto di sé, che è dato dal rapporto tra come percepiamo noi stessi, cioè il cosiddetto sé percepito e il sé ideale.

Il sé ideale corrisponde al modo in cui ognuno di noi vorrebbe che gli altri lo vedessero. Esso è legato alle esperienze dell’infanzia e rispecchia le aspettative dei genitori. Per fare un esempio, se un genitore ha cresciuto il proprio figlio con l’aspettativa che debba essere sempre il migliore della classe e diventare un grande professionista, il ragazzo dovrà confrontarsi durante la crescita con un sé ideale difficile da raggiungere e questo lo porterà a vivere come un enorme fallimento ogni banale difficoltà scolastica incontrata lungo il percorso.

La mancanza di autostima, quindi, è spesso il risultato di un grande divario tra come pensiamo di essere (sé percepito) e come vorremmo essere (sé ideale). Parlo di quella costante sensazione di non essere mai abbastanza, nei vari ambiti della vita, di non raggiungere mai un ideale di perfezione, a prescindere dai risultati e feedback positivi che possono arrivare dall’esterno.

Viceversa, più i due concetti di sé percepito e di sé ideale coincidono, più possiamo sperimentare una solida autostima.

Altre volte, invece, la scarsa autostima può essere causata da una distorsione nel modo di percepire se stessi: non sempre, infatti, il sé reale, cioè chi siamo oggettivamente, e il sé percepito, cioè la nostra idea di noi, corrispondono. Ad esempio, un individuo affetto da anoressia, può arrivare a guardarsi allo specchio e vedersi grasso nonostante sia gravemente sottopeso.

La resilienza

Abbiamo visto come la mancanza di autostima può dipendere dalle relazioni instaurate con le figure genitoriali durante l’infanzia. Eppure, come è possibile spiegare che, a parità di situazione familiare difficile, alcune persone presentano problemi di autostima e altre no?

La risposta risiede nel concetto di resilienza. La resilienza è la capacità di reagire in modo creativo e positivo agli eventi negativi.

Sono esempi di resilienza la pittrice Frida Kahlo o altri noti personaggi contemporanei come Alex Zanardi e Bebe Vio, le cui biografie dimostrano come siano stati in grado di affrontare gravi problemi fisici con grande slancio vitale.

Alcuni individui presentano questa capacità in forma innata, mentre altri la possono sviluppare successivamente nel corso della vita. La buona notizia è che è possibile allenarla, cominciando a guardare ad ogni difficoltà come ad un’occasione di crescita personale.

L’amore verso se stessi

Se è vero che le esperienze del passato possono aver avuto un impatto negativo sulla nostra autostima, questo non vuol dire che non sia possibile lavorare su noi stessi per cominciare a volerci bene e accettarci così come siamo.

Avere una solida autostima, infatti, non significa arrivare al proprio sé ideale, ma vuol dire accettare di non poter raggiungere una perfezione che di fatto non esiste.

Amare se stessi vuol dire nutrire profondo rispetto verso la propria persona, malgrado i difetti e le fragilità. Solo quando accettiamo noi stessi per quello che siamo, possiamo trasformare positivamente degli aspetti di noi e crescere. Accettare infatti non equivale a rassegnarsi passivamente, bensì ad accogliere amorevolmente.

Come già detto, i problemi di autostima sono connessi alla ricerca di approvazione dall’esterno.

Ogni individuo adulto dovrebbe invece iniziare a cercare la propria approvazione, senza più preoccuparsi di quella che proviene dall’esterno. La nostra felicità, infatti, dipende solo da noi.

Se desideriamo un cambiamento, questo deve necessariamente partire dall’interno.

Come facciamo a sentirci amati se noi per primi non amiamo noi stessi?

Se aumenta la stima e l’amore che nutriamo per la nostra persona, gradualmente le relazioni che instaureremo rispecchieranno questo cambiamento.

Per compiere questo passaggio occorre per così dire “genitorializzarsi”, cioè diventare genitori benevoli di se stessi, senza restare ancorati a quella approvazione che forse non c’è stata durante l’infanzia.

Cominciamo quindi a domandarci se approviamo noi stessi e quello che siamo e che facciamo nella nostra vita. Più che chiederci se gli altri ci accettano, rivolgiamo a noi stessi questi interrogativi:

Chi sono? cosa desidero per la mia vita?

Quando cominciamo a essere più consapevoli della persona che siamo, diventiamo più centrati e in contatto con i nostri bisogni e desideri. In questo modo gli altri inizieranno a rispettarci e amarci di più, proprio come facciamo con noi stessi.

La cura di sé

Il primo passo per allenare l’autostima è prendersi cura di sé. Iniziare a far caso a quanto tempo durante la giornata dedichiamo a noi e a ciò che ci fa stare bene. Può trattarsi anche di piccoli gesti quotidiani e brevi momenti di felicità, come ad esempio fare una passeggiata all’aria aperta, trascorrere del tempo con gli amici oppure dedicarsi a un hobby. Siamo tutti diversi e ognuno ha i suoi personali modi per stare bene. Occorre trovarli e ritagliarsi uno spazio e un tempo per coltivarli sempre di più.

Prendersi cura di se stessi significa volersi bene. Solo curandoci possiamo guarire le ferite del passato. La cura di sé ha un vero e proprio “effetto volano” sull’autostima.

Il prossimo appuntamento formativo si terrà sabato 18 maggio e sarà dedicato alla manipolazione affettiva.

 

Sibilla Ceccarelli – Coach, in collaborazione con PsicologheLab

Il narcisismo patologico.

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Il narcisismo patologico. Una giornata di formazione al Centro Antiviolenza Erize per sfatare i falsi miti sul narcisismo.

Lo scorso 13 aprile ha avuto luogo il secondo appuntamento formativo tenuto dalla Psicologa e Psicoterapeuta Rita Zumbo presso il centro Antiviolenza M. A. Erize sul narcisismo patologico.

Il termine “narcisista” è ormai entrato a far parte del linguaggio comune. Ma chi è davvero il narcisista patologico?

Per spiegare questo disturbo, ci viene in aiuto la mitologia.

 “Interrogato se Narciso sarebbe giunto a vedere una lunga avanzata vecchiaia, l’indovino rivelatore del fato aveva risposto: «Se non conoscerà se stesso».

Ovidio, Metamorfosi, 3: 339-510

Secondo la leggenda, questa è la profezia che venne fatta alla Ninfa Liriope sul futuro di suo figlio Narciso: la sua forza e la bellezza non si offuscheranno, finché non conoscerà se stesso.

La mitologia ci offre dei preziosi spunti per capire una delle caratteristiche principali del Narcisista patologico: la sua apparente forza risiede proprio nell’incapacità di conoscere e accettare le sue fragilità.

Il narcisista patologico, infatti, ha paura di “guardarsi allo specchio” e di vedere il suo lato ombra, perché questo potrebbe far crollare le sue sicurezze e provocargli una sofferenza che non è in grado di gestire.

Il Narcisista si crea quindi una corazza di ostentata grandiosità che gli impedisce di instaurare rapporti di autentica vicinanza e intimità con l’altro.

Narciso è incapace di amare qualcuno all’infuori di se stesso

Aprirsi all’altro significherebbe mettere in discussione il proprio modo di essere, correre il rischio di sentirsi fragile, di essere tradito o deluso e dunque, in definitiva, di soffrire.

Al polo opposto del Narcisista si trova il dipendente affettivo, rappresentato nel mito dalla Ninfa Eco.

Nello scenario descritto dalla leggenda, non resta molto spazio per la bella Eco che, innamoratasi di Narciso, arriva ad autodistruggersi per via dell’amore non corrisposto verso colui che vede solo se stesso.

Come spesso avviene nei miti, il finale è tragico.

I guai di Narciso iniziano nel momento in cui egli si innamora perdutamente della sua immagine, riflessa sull’acqua di un fiume. La leggenda narra che, una volta compreso che non avrebbe mai potuto coronare il suo amore verso la sua stessa immagine riflessa, Narciso si lasciò morire struggendosi inutilmente; si compiva così la profezia fatta a sua madre dall’indovino.

Chi è il narcisista patologico.

Potrà sembrare paradossale ma il bel Narciso, apparentemente così superbo e sicuro di sé, è in realtà estremamente fragile.

Quante volte ci è capitato di conoscere persone che mascherano la propria insicurezza dietro a un atteggiamento spavaldo e a castelli di bugie?

Contrariamente ai luoghi comuni, il “Narciso” di turno in cui può capitare di imbattersi nella propria vita, può essere sia un uomo che una donna.

Il narcisista patologico ha di solito queste caratteristiche:

  • non è empatico, cioè non riesce a mettersi nei panni dell’altro e per questo può arrivare anche a compiere atti malvagi, non rendendosi conto della sofferenza che genera (i comportamenti messi in atto possono andare dal fatto di non curarsi minimamente delle esigenze dell’altro fino agli atti più estremi quali la violenza e il femminicidio);
  • è spesso permaloso e non ama le critiche;
  • è un “attore dalle mille maschere”, che indossa per attirare la sua “preda” nelle prime fasi della conoscenza (può ad es. fingere di avere gli stessi interessi dell’altro e percepire quali sono i punti deboli su cui può fare leva per acquisire potere);
  • ha una carica energetica e vitale che affascina;
  • in genere tradisce nelle relazioni ed è solito mentire;
  • manipola la realtà e sfrutta le situazioni a suo vantaggio;
  • sminuisce continuamente il partner con continue critiche, facendolo sentire “sbagliato”.

 

“Non capisci mai niente”, “anche stavolta hai sbagliato”, “se sono arrabbiato/a è solo colpa tua”.

Chi ha avuto a che fare con un narcisista patologico almeno una volta nella vita, probabilmente si è sentito rivolgere ripetutamente affermazioni di questo tipo e conosce la diminuzione dell’autostima che nel lungo termine si finisce per sperimentare.

Il narcisismo patologico nasce da una sofferenza subita durante lo sviluppo, la cosiddetta “ferita narcisistica”.

Il narcisista non è stato in grado di accettare la sofferenza di sentirsi in qualche modo disapprovato e umiliato dalle sue figure di accudimento durante l’infanzia. Questo ha fatto sì che egli sia rimasto ancorato a una fase infantile dello sviluppo della sua personalità.

Intorno a questa fragilità, si è costruito un’impalcatura di difesa che gli permette di evitare la sofferenza di sentirsi disapprovato e non amato. Si protegge nutrendo il suo ego e circondandosi di persone che gli garantiscano continue conferme. Ogni critica, infatti, sarebbe una ferita difficile da rimarginare.

Per evitare di sentirsi fragile, il Narcisista patologico si erge a “giudice della vita” ed evita di entrare in contatto con la sua emotività e con quella altrui.

La manipolazione affettiva e i suoi segnali

La manipolazione affettiva che mette in atto il narcisista patologico verso il partner è una sorta di passo a due, ballato da due persone con caratteristiche complementari. Uno dei due, il manipolatore, ha bisogno di mantenere il controllo e l’altra, la vittima, ha una forte necessità di fusione e approvazione, che la porta a permettere al manipolatore di ridefinire la sua realtà.

Alla base della manipolazione c’è un ricatto affettivo:

“per essere amata/o da me devi essere in un certo modo”.

Spesso, chi è vittima di manipolazione affettiva da parte di un narcisista, presenta questi segni:

  • Ha scarsa fiducia nella propria capacità di percepire la realtà e dunque una sensazione di confusione;
  • riporta sintomi ansiosi (disturbi gastrici, attacchi di panico ecc.);
  • ha incubi o sogni inquietanti ricorrenti;
  • avverte timore, agitazione o stress quando è in presenza del manipolatore;
  • sperimenta frustrazione e sente compromessa la sua dignità;
  • avverte tristezza che può anche sfociare in vera e propria depressione;
  • prova rabbia.

 

Nei casi in cui si è vittima di manipolazione affettiva non sempre è facile capire che l’origine di questa sofferenza sia proprio la relazione. Il fatto di iniziare a cogliere questi segnali ascoltandosi di più, può essere il primo passo per fare chiarezza e individuare il problema.

Il narcisista e il dipendente affettivo: cosa hanno in comune?

Eco e Narciso, nonostante siano i poli opposti dell’amore patologico, sono uniti da un comune destino, quello della solitudine. Per solitudine non intendo quella di chi non riesce a instaurare o a mantenere un rapporto con il partner, ma la sensazione di vuoto data dalla mancanza di una reale connessione affettiva con l’altro. Ci si può sentire infatti profondamente soli pur essendo in coppia.

Sia la persona narcisista che il dipendente affettivo sono per così dire “ciechi”: Il narcisista non vede altro che se stesso mentre il dipendente vede solo l’altro e le sue esigenze ma non ha consapevolezza della sua identità, dei suoi bisogni e desideri.

Narciso tiene fuori dalla sua affettività il resto del mondo, mentre il dipendente affettivo esiste solo in funzione di ciò che prova per l’altro.

Per Eco e Narciso quindi è davvero impossibile amarsi. Sono come due binari paralleli; seppur vicini non possono incontrarsi.

Ciò che crea un’irresistibile attrazione e li lega l’un l’altro è proprio la loro caratteristica comune: la mancanza di autostima.

L’attrazione fatale tra Eco e Narciso

Perché il dipendente affettivo e il narcisista sono in grado di riconoscersi tra milioni di persone ed attrarsi come calamite?

Dipendente affettivo: “Io ti farò sentire amato/a e ti venererò fino ad annullare me stessa/o.

Narcisista: “Io colmerò il tuo senso di vuoto e la paura di essere abbandonata/o”.

 

Queste in sostanza sono le promesse implicite che si scambiano i due, fin dalle prime fasi della conoscenza.

Contrariamente ai luoghi comuni sull’argomento, non è solo il narcisista a “usare” il dipendente per i suoi fini, ma è vero anche il contrario.

Entrambi sono allo stesso tempo manipolatori affettivi e dipendenti.

Anche il manipolatore è in una posizione di dipendenza, visto che ha bisogno dell’altro per nutrire il suo ego.

Dalla consapevolezza alla libertà

Quando in ogni relazione d’amore finiamo con l’interpretare un ruolo fisso, che si tratti di quello della persona che si annulla per amore o di chi è freddo e sfuggente, stiamo rinunciando alla nostra libertà di scelta e annullando le caratteristiche che rendono ognuno di noi unico e speciale.

La base di una relazione sana, invece, è proprio la flessibilità.

Il primo passo per uscire da queste dinamiche rigide è acquisirne consapevolezza.

Nel momento in cui diventiamo consapevoli della nostra responsabilità rispetto alle esperienze negative del passato, smettiamo di percepirci come vittime e ci riappropriamo del nostro potere personale.

Ed è allora che siamo finalmente in grado di lavorare su noi stessi per diventare artefici di un cambiamento positivo in noi. Solo a quel punto possiamo accedere alle nostre risorse personali e far sì che le esperienze passate non ci condizionino all’infinito.

Il prossimo incontro al centro Erize si terrà il 4 maggio e verterà proprio su quello che è il tema  chiave per superare sia il narcisismo che la dipendenza affettiva: l’autostima.

Sibilla Ceccarelli – Coach, in collaborazione con Psicologhelab

La dipendenza affettiva spiegata attraverso il mito della Ninfa Eco.

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La dipendenza affettiva spiegata attraverso il mito della Ninfa Eco. Una giornata di formazione al Centro Antiviolenza Erize per guardarsi dentro e riconoscere, con ironia e amore verso se stesse, le proprie fragilità e le risorse per affrontarle.

Lo scorso 23 marzo, la Psicologa e Psicoterapeuta Rita Zumbo ha tenuto un interessate seminario esperienziale presso il centro antiviolenza M. A. Erize sulla dipendenza affettiva.

La giornata è iniziata con il racconto del mito di Eco e Narciso. La mitologia ha offerto preziosi spunti per spiegare in modo semplice e intuitivo fenomeni complessi come i disturbi della sfera affettiva.

Il mito narra la storia del bel Narciso, iperprotetto dalla madre e incapace di amare qualcuno all’infuori di se stesso e della Ninfa Eco, innamoratasi perdutamente di lui, che si autodistrugge fino a perdere la potenza della sua bella voce a forza di invocare colui che non vuole affatto ascoltarla.

Eco e Narciso, per paradosso, sono due facce della stessa medaglia. Entrambi sono simboli eterni dell’incapacità di amare davvero, di raggiungere una profonda intimità con il partner, di vedere l’altro per la persona che è realmente, con pregi e difetti.

La Ninfa Eco e La dipendenza affettiva

La Ninfa Eco ritrae fedelmente la figura del dipendente affettivo.

Nel mito, la bella Eco arriva quasi a perdere la voce dopo aver invocato a lungo e invano Narciso, di cui era follemente innamorata, che non aveva in realtà nessun interesse ad ascoltarla.

La mitologia offre un’efficace metafora per descrivere quelle relazioni in cui un uomo o una donna cercano disperatamente la considerazione e l’amore del partner, il quale invece è troppo preso da se stesso per accorgersi di loro.

Con la flebile voce che le resta, Eco è in grado solo di ripetere (l’ultima parte di) ciò che dice l’altro, ma non può più far sentire la propria voce.

L’esito della dipendenza affettiva è dunque l’accondiscendenza e l’asservimento completo al partner. Il prezzo da pagare per ricevere sicurezza affettiva però è molto alto: occorre rinunciare alla propria identità e sacrificarla in nome di un amore che genera sofferenza.

“Non merito di essere amato”. Ecco la convinzione che condiziona la vita sentimentale del dipendente affettivo.

L’insicurezza di chi sviluppa una dipendenza affettiva nasce generalmente da una mancanza di amore, di una base affettiva sicura, che ha caratterizzato il periodo dell’infanzia. Le ragioni per cui il dipendente affettivo non si è sentito abbastanza amato possono essere molteplici: casi di abusi psicologici da parte di genitori alcolisti o tossicodipendenti, madri affettivamente assenti perché alle prese con lutti familiari o con problemi di depressione ecc.

Per sopperire alla mancanza di affetto vissuta, il dipendente affettivo tende a iper responsabilizzarsi. Cerca disperatamente di guadagnare amore facendosi in quattro per gli altri e dimostrandosi disponibile e compiacente. Generalmente ha difficoltà a gestire le proprie emozioni da cui a volte si sente sovrastato e necessita di continue conferme da parte degli altri.

Il dipendente affettivo porta con sé un fardello fatto di senso di inadeguatezza e paura di essere abbandonato, essendo convinto nel profondo di non essere degno d’amore. Per questo motivo, avverte la perenne urgenza di colmare un vuoto, anche a costo di accontentarsi delle “briciole” e di adattarsi a partner anaffettivi.

Il dipendente affettivo, pur di evitare la sofferenza della non amabilità e l’abbandono, può in certi casi arrivare a tollerare forme di violenza psicologica o fisica da parte del partner.

Quando si è dipendenti a livello affettivo si è costantemente focalizzati sui bisogni dell’altro, che si cerca di accontentare fino al punto di sacrificare se stessi e la propria felicità.

Eppure, il fatto di poter dare a qualcun altro quell’amore che non si nutre per se stessi è solo un’illusione. Come si può dare ad altri ciò che non si ha?

Contrariamente ai luoghi comuni sull’argomento, nelle relazioni interessate dalle dinamiche di narcisismo e dipendenza affettiva non esiste una netta distinzione tra “buoni” e “cattivi” o tra “vittima” e “carnefice”. Mentre la dipendente affettiva Eco viene manipolata dal Narcisista, a sua volta “utilizza” quest’ultimo in modo strumentale alla soddisfazione del suo bisogno di colmare un vuoto affettivo e allontanare la paura dell’abbandono.

Abbandonare i “copioni” per diventare libere

È stato interessante scoprire come tratti di narcisismo e di dipendenza affettiva siano presenti in ognuno di noi e come questo sia perfettamente normale e fisiologico.

Può accadere però di scoprirci a interpretare in ogni relazione d’amore un ruolo rigido e immutabile, quello della persona sensibile ed empatica, vittima di un partner freddo e distaccato.

La ricorrenza delle stesse dinamiche all’interno di ogni relazione vissuta non può essere casuale, ma dipende senz’altro dai nostri pensieri e comportamenti.

Il primo passo per smettere di identificarsi con un ruolo fisso che ci intrappola in una serie di storie disfunzionali è quello di diventarne consapevoli.

Troppo spesso, quando la fine di una relazione porta con sé una grande sofferenza, si tende a voler capire a tutti i costi le motivazioni che hanno indotto il partner a comportarsi in un determinato modo.

Se si ha una bassa autostima, poi, si tende a pensare a se stessi solo in termini negativi, cercando di rintracciare quali sono stati gli errori che hanno portato a quell’epilogo.

Per smettere i panni della Ninfa Eco, occorre invece spostare la propria attenzione dall’altro per rivolgerla in modo amorevole verso noi stesse.

Per imparare a prenderci cura di noi, occorre cominciare a porci alcuni interrogativi a cui probabilmente all’inizio non sarà facile dare una risposta. Se per lungo tempo ci si è preoccupati solo delle esigenze dell’altro, vuol dire che probabilmente non si è molto abituati a interrogarsi su quale sia il proprio bene.

Cos’è che ci rende felici? Qual è il nostro progetto di vita? Quali sono i nostri punti di forza che ci rendono persone uniche e speciali?

Nel momento in cui riscopriamo la nostra identità, diventiamo consapevoli delle risorse su cui possiamo contare per trarre dalla sofferenza nuova forza e saggezza.

Il prossimo appuntamento formativo si terrà il 13 aprile e sarà dedicato al narcisismo.

La giornata di formazione al Centro antiviolenza M. A. Erize è stata permeata da un clima di sorellanza e di profonda umanità. È stato bello conoscere tante donne coraggiose e desiderose di mettersi in gioco per crescere insieme.

Sibilla Ceccarelli – Coach, in collaborazione con PsicologheLab

 

Lavoro e autorealizzazione

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Lavoro e autorealizzazione: secondo le statistiche soldi e carriera non bastano. Per sentirsi realizzati entrano in gioco altri fattori.

“Quasi tre italiani su dieci si dicono “fortemente insoddisfatti” della loro busta paga”. Questo è il dato che emerge da una recente indagine (Salary Satisfaction Report 2018).

Fin qui nulla che non fosse prevedibile. È normale che l’abbassamento degli stipendi dell’ultimo decennio abbia aumentato il malcontento dei lavoratori.

Il dato più sorprendente riguarda invece il peso crescente che hanno altri fattori, diversi da quello economico, nel benessere sul lavoro.

Secondo le ultime indagini, nella scelta di cambiare lavoro, “voci quali la possibilità di formarsi o l’equilibrio tra vita privata e professione “pesano” di più dei bonus” (Repubblica.it del 19 febbraio 2018).

In altre parole, l’insoddisfazione che spinge alcune persone ad abbandonare il proprio posto di lavoro non è solo il risultato di una busta paga deludente. Essa è influenzata anche da altri elementi.

Per il 44,3% delle persone, le buone relazioni con i colleghi risultano essere la prima ragione per mantenere il proprio posto di lavoro. L’ambiente di lavoro è invece rilevante per il 42,6%. L’equilibrio tra vita privata e lavoro per il 40,9% e per il 35,8% il contenuto del lavoro svolto. La retribuzione fissa impatta solo nel 31,8% dei casi.

Ora, è evidente che il livello di insoddisfazione in ambito professionale ultimamente abbia raggiunto livelli record. Basta entrare in un bar e prestare attenzione alle conversazioni dei presenti per realizzare che il lavoro è spesso un tasto dolente per gli Italiani.

Ma è davvero tutta colpa della crisi?

È innegabile che la crisi economica sia la principale responsabile dell’abbassamento del livello degli stipendi e della difficoltà sempre crescente nella ricerca di posti di lavoro.

Prendiamo però in considerazione le persone che, nonostante la crisi, hanno fatto carriera e portano a casa un’ottima retribuzione. Gli appartenenti a questa categoria di  pochi “fortunati” si dicono tutti soddisfatti e felici del proprio lavoro?

Ti verranno sicuramente in mente esempi di persone che, pur non avendo motivi economici per lamentarsi della loro situazione lavorativa, manifestano malessere. È quindi evidente che la felicità sul lavoro dipende anche e soprattutto da altre motivazioni.

Soldi e carriera non bastano più

Le persone si sentono demotivate se con il proprio lavoro, oltre a soddisfare esigenze economiche, non riescono a soddisfare anche il loro bisogno di autorealizzazione.

È piuttosto facile verificare anche a livello empirico la realtà fotografata dalle statistiche. Capita infatti quotidianamente di imbattersi in persone insoddisfatte nonostante il lavoro procuri loro ottimi guadagni.

La soddisfazione dell’esigenza di riconoscimento economico e sociale quindi è solo il punto di partenza per il benessere in ambito lavorativo.

L’autorealizzazione

“La tendenza all’autorealizzazione è una spinta alla libertà. La persona cerca di determinare quali sono i propri bisogni, obiettivi, passioni e cerca di coltivarli ed esprimerli dentro contesti concreti”.

Luca Stanchieri

La crisi del principio dell’autorità e del rispetto fondato sulla paura nonché i cambiamenti del contesto politico e sociale degli ultimi decenni hanno aperto la strada ad un’epoca nuova, caratterizzata dalla possibilità per l’individuo di realizzarsi in ogni ambito della propria vita.

Oggi dunque il lavoro è uno strumento per autorealizzarsi.

Affinché un individuo si senta motivato, il suo lavoro deve incarnare il significato, senso e scopo della sua vita ed essere un mezzo per dare un contributo di valore alla società.

Come sentirsi realizzati sul lavoro

L’autorealizzazione passa per la soddisfazione dei bisogni di:

  • autonomia, cioè l’esigenza di avere un margine di libertà nello scegliere come svolgere le proprie mansioni;
  • competenza, ovvero sentirsi efficaci e migliorare continuamente accrescendo il proprio bagaglio di conoscenze;
  • relazione, cioè sviluppare insieme ai colleghi il senso di appartenenza a un team che condivide gli stessi valori.

Se ti senti demotivato e frustrato, comincia a chiederti se con il tuo lavoro riesci effettivamente a soddisfare queste esigenze.

Come migliorare la tua situazione lavorativa

Non importa se hai un capo autoritario o illuminato, se ti trovi bene con i colleghi o se fai il lavoro dei tuoi sogni.

In ogni momento puoi migliorare la tua situazione lavorativa presente individuando le tue potenzialità e trovando il modo di esprimerle nel tuo lavoro.

Le potenzialità hanno la caratteristica di renderti soddisfatto e appagato nel momento in cui vengono espresse. Se allenate, possono diventare dei veri e propri talenti messi al servizio dell’azienda.

Ad esempio, un collaboratore in un’azienda che ha una spiccata creatività, potrebbe esprimerla escogitando e sviluppando metodi più efficaci per portare a termine gli obiettivi aziendali.

Un Avvocato che ha la potenzialità dell’amore per il sapere, potrebbe metterla al servizio del proprio studio. Approfondendo alcuni aspetti della professione potrebbe specializzarsi in uno specifico ramo dell’attività.

Il Coach può essere un valido aiuto per individuare le tue potenzialità e trovare il modo di esprimerle nel tuo ambiente lavorativo. Questo allenamento avrà l’effetto immediato di aumentare il tuo livello di benessere sul lavoro.

Dalla crisi all’opportunità

“Figlioli, dovete combattere per trovare la vostra voce. Più tardi cominciate a farlo, più grosso è il rischio di non trovarla affatto.  Non affogatevi nella pigrizia mentale. Guardatevi intorno!
Osate cambiare. Cercate nuove strade”.

“Professor John Keating” dal film “L’attimo fuggente”

Consideriamo ora l’altra faccia della medaglia della crisi. Oggi seguire strade che non sono in linea con la propria vocazione e passioni, oltre a non favorire l’autorealizzazione, rischia di non garantire neppure una solidità economica.

In passato molte persone sceglievano di esercitare professioni che, pur non corrispondendo al lavoro dei loro sogni, procuravano una serie di riconoscimenti.

Fino a pochi anni fa, poi, il proverbiale “posto fisso” metteva al riparo dalla precarietà. I licenziamenti illegittimi infatti erano effettivamente penalizzati dalla legge.

Nell’ultimo decennio, invece, abbiamo assistito alla:

  •  crisi delle professioni tradizionali. Fare mestieri come il commercialista, l’avvocato o il giornalista spesso comporta il rischio di precarietà e di guadagni bassi;
  •  riduzione generale del livello degli stipendi;
  • crollo del “mito del posto fisso” per il cambiamento della legislazione sul licenziamento. Oggi per i datori di lavoro è molto più facile licenziare lavoratori assunti a tempo indeterminato.

Tutti questi fenomeni – che sono il prodotto della crisi – possono essere un’opportunità per cercare situazioni lavorative che ti consentano di esprimere le tue potenzialità. Senza più fermarti alla “prima spiaggia”.

Intraprendere strade alternative

Potresti considerare di investire su un’idea innovativa di business seguendo un’intuizione. Oppure potresti intraprendere il percorso verso la professione che più si allinea alla tua vocazione.

Negli ultimi decenni, alcune persone hanno investito su idee di business che, partite come semplici start up, sono diventate aziende multimilionarie. Alcune di esse offrono servizi che hanno cambiato il nostro stile di vita (basta pensare a Facebook, Groupon e molte altre).

Esistono anche esempi di persone che hanno seguito la propria vocazione trasformando un hobby in un lavoro e ottenendo incassi da record. Pensiamo a J. K. Rowling, la scrittrice di Harry Potter. Da mamma disoccupata che si dilettava a scrivere favole per sua figlia, si è trasformata in una scrittrice di fama mondiale.

Con un percorso di Coaching puoi prendere coscienza del valore unico del tuo lavoro. Da questo punto di partenza potrai realizzarti nel tuo lavoro attuale oppure cercare altre situazioni lavorative che ti consentano di esprimere le tue potenzialità e la tua vocazione.

Sibilla Ceccarelli – Coach

sibilla@coach2coach.it

 

Essere donne oggi

le donne

Essere donne oggi. La vera sfida per le donne è quella di diventare consapevoli del proprio valore e svolgere un ruolo di guida attraverso un periodo di profondi cambiamenti.

Essere buone, belle e brave. Questo è l’imperativo che spinge le donne fin da piccole a mettersi in discussione, a migliorare costantemente superando i loro limiti, a essere attente ai bisogni dell’altro. Spesso, purtroppo, il prezzo di questa tensione alla perfezione è molto alto. Tanto alto da fargli perdere di vista chi sono davvero, nel tentativo di conformarsi alle aspettative degli altri.

Per molte donne l’amore incondizionato verso se stesse non è affatto scontato. É una conquista che arriva al termine di un percorso di evoluzione personale.

“Merito davvero di essere amata?”

Spesso questo interrogativo inconscio è cruciale nella vita di una donna. La risposta – altrettanto inconsapevole –  influenza in modo determinante la sua vita e le sue relazioni.

“Quando sarò abbastanza magra, quando sarò abbastanza brava… solo allora sarò meritevole di essere amata”.

Convinzioni di questo tipo sono delle vere e proprie zavorre che rallentano il cammino verso la nostra realizzazione personale e ci allontanano dalla felicità.

Quando non percepiamo il valore che nasce dalla nostra unicità ed esiste a prescindere dai riconoscimenti esterni, facciamo entrare una grande sofferenza della nostra vita.

Cominciamo a dubitare di essere “abbastanza” in ogni ambito della nostra vita e diventiamo schiave dell’approvazione altrui, rinunciando di fatto alla nostra libertà.

Questa insicurezza si riflette negativamente non solo nelle relazioni ma anche in ambito lavorativo. Ci può portare ad accettare compromessi sul lavoro, a giustificare un uomo che non ci rispetta o che addirittura compie atti di violenza fisica o psicologica, a trascurare la cura di noi stesse, a portare avanti una relazione solo per paura della solitudine o a mettere da parte i nostri sogni perché crediamo di non essere all’altezza di farli diventare realtà.

Dal movimento di denuncia #wetoo ai casi di femminicidio, i fatti di cronaca ci raccontano della difficoltà che spesso le donne incontrano nel denunciare episodi di violenza o molestie sessuali. Il cattivo consigliere in questi casi non è solo la scarsa autostima ma anche il senso di colpa che spesso la accompagna.

“La colpa è mia che l’ho provocato… la colpa è mia che non sono stata in grado di fermarlo… se lo lascio soffrirà”.

Quando una donna non si sente meritevole di essere amata, tende a colpevolizzarsi rispetto a ciò che le accade di negativo, come se tutto dipendesse da lei.

Del resto anche una parte dell’opinione pubblica, nei casi di moleste sessuali, finisce per puntare il dito contro l’abbigliamento troppo provocante della malcapitata. Altre volte, come nel caso Weinstein, per minimizzare si fa leva sui presunti benefìci che la vittima avrebbe ottenuto in cambio del suo silenzio.

Da cosa nasce questa difficoltà delle donne nel percepire il proprio valore?

I retaggi della cultura patriarcale che relegava le donne al ruolo di “angelo del focolare” influenzano ancora oggi l’educazione che le bambine ricevono dalla famiglia ma soprattutto dalla società.

Il più delle volte alcuni messaggi vengono trasmessi in modo implicito e inconsapevole. Fin da piccole le donne si abituano a essere attente ai bisogni dell’altro e a dedicarsi alla sua cura. Si convincono che la realizzazione personale debba passare necessariamente per il matrimonio o i figli e che il fatto di restare nubili oltre una certa età sia sinonimo di fallimento e solitudine.

Quando lo scenario auspicato per le donne dalla società non si realizza, subentra facilmente il senso di colpa e questa situazione di “scarto dal modello” viene vissuta come un fallimento personale.

Quando una donna non ha un profondo rispetto per se stessa, non è in grado di esigerlo dagli altri. Se una donna non si ama così com’è, tende a idealizzare chiunque lo faccia al posto suo, fino ad arrivare a giustificarlo laddove le faccia del male.

“Se ti ama troppo non ti ama affatto.

I luoghi comuni legittimano la violenza. Liberatene”

Slogan della Giornata internazionale per la liberazione della violenza sulle donne

La mancanza di autostima e la conseguente tendenza a colpevolizzarsi sono sicuramente degli ostacoli nel percorso di realizzazione di una donna.

Eppure ciò che allontana di più le donne dalla loro felicità è una convinzione più subdola ma profondamente radicata nella cultura della nostra società: l’etica del sacrificio.

Spesso le donne tendono a credere che sia possibile far felice chi amano abdicando alla loro felicità. L’amore per l’altro quindi segna una rinuncia all’amore verso se stessi. Si impara a stare male in nome di un presunto bene di coloro che si amano.

È un esempio di questa concezione di amore quello di una madre che metta completamente da parte il suo bene e la cura di sé per il proprio figlio. In questo modo la donna diventerà infelice e finirà per coltivare sentimenti di rassegnazione o di rancore verso la vita. L’insoddisfazione della madre finirà inevitabilmente per pesare sul bambino.

Il fatto che sia possibile ottenere il bene dell’altro senza occuparsi del proprio è un’illusione che porta molta sofferenza nella nostra vita. In realtà è vero il contrario: è possibile fare del bene agli altri solo se si sta bene. La nostra felicità e quella degli altri sono strettamente connesse e l’una non può prescindere dall’altra.

La sfida delle donne

La grande sfida che il nuovo millennio pone alle donne è quella di trasformare il problema di mancata consapevolezza del proprio valore in un obiettivo di sviluppo.

La sensibilità che caratterizza ogni donna che è in grado di mettersi nei panni dell’altro per proteggerlo, se correttamente utilizzata, è una grande risorsa.

Proprio partendo dalla scoperta dei propri punti di forza, la donna è chiamata, per le sue doti innate che la rendono particolarmente idonea alla protezione della vita, ad accompagnare coloro che ama attraverso un periodo storico di cambiamenti rapidi e profondi svolgendo un ruolo di guida. E tutto ciò senza rinunciare alla propria realizzazione, perché la sua felicità non può che andare in parallelo con quella dei suoi affetti.

Sibilla Ceccarelli 

Il dialogo interiore

dialogo interiore

Il dialogo interiore. Ciò che ripetiamo a noi stessi condiziona il modo di affrontare le circostanze. Vediamo come orientarlo al nostro benessere.

Che dialogo interiore intratteniamo con noi stessi? In che modo ci giudichiamo?
E ancora: ne siamo consapevoli?

La nostra voce interiore ci accompagna costantemente durante la giornata. È come un rumore di sottofondo fatto di valutazioni e giudizi che riguardano non solo le persone e le situazioni con cui ci confrontiamo, ma anche noi stessi e la nostra performance in ogni ambito.

Il modo in cui parliamo a noi stessi, in particolare, è fondamentale e cambia la prospettiva da cui vediamo le cose e quindi anche i comportamenti che assumiamo per affrontare le situazioni che ci presenta la vita.

Non sempre però i messaggi che rivolgiamo alla nostra persona sono positivi. In alcuni casi è come se nella nostra mente ci fosse un giudice severo che punta continuamente il dito contro di noi svalutandoci. Ė questo giudice interno che interviene quando ci sentiamo inadeguati o sbagliati.

“Che stupido”. “Non sono in grado”.“Ho sbagliato anche stavolta”.

Ti capita spesso di ripeterti frasi del genere?

Ebbene, vuol dire che il tuo dialogo interno non è funzionale al raggiungimento dei tuoi obiettivi e ti sta impedendo di essere felice. Ciò che può davvero renderci felici e soddisfatti della nostra vita infatti sono i nostri pensieri. La buona notizia però è che con un po’ di allenamento siamo in grado di cambiarli.

Il dialogo interno, del resto, gioca un ruolo determinante anche nell’ambito della performance sportiva. In questi casi è fondamentale focalizzare l’attenzione sui gesti tecnici e restare nel momento presente, invece di spostare l’attenzione sul giudizio relativo alla propria performance e sul futuro.

“Il modo in cui giochiamo il nostro gioco interiore spesso fa la differenza tra il nostro successo o insuccesso.”

Timothy Gallwey

Parlare a noi stessi in modo ipercritico invece che da alleati è una vera e propria zavorra che ci appesantisce e ci rallenta in tutti gli ambiti della nostra vita.

Se diciamo a noi stessi che abbiamo fallito, penseremo automaticamente di essere dei falliti e sentiremo nel profondo di non valere nulla. Questo innescherà un meccanismo che ci predisporrà a trovare la conferma di questa evidenza nella realtà e, oltretutto, renderà invisibili ai nostri occhi tutte quelle circostanze che condurrebbero alla conclusione opposta.

Osservarsi in maniera troppo rigida impedisce di vedere nuove parti di noi stessi che stanno emergendo, cambiando e migliorando. Se ci atteggiamo a critici inflessibili di noi stessi finiremo per sminuire il valore dei progressi fatti. Ci sentiremo sempre al punto di partenza, malgrado l’impegno.

Al contrario, se cominciamo a parlare a noi stessi in modo più indulgente, riusciremo a vedere ogni eventuale errore come una lezione invece che come un fallimento.

Partiamo dalla consapevolezza

Il punto è che spesso non riconosciamo affatto la presenza del nostro dialogo interno.

Finché non diventeremo consapevoli della sua esistenza e del contenuto dei suoi messaggi, aderiremo acriticamente ai suoi giudizi negativi. Finiremo quindi per identificarci con essi. Nel momento in cui cominceremo a riconoscerlo, potremo comprendere che di tratta solo di una parte di noi e che non c’è nulla di oggettivo nei suoi giudizi. Sono semplici opinioni e come tali perfettamente contestabili.

Provate a prestare attenzione al vostro dialogo interiore quando assume connotati negativi. Vi suona familiare? Spesso ripete giudizi negativi che qualcuno per noi importante ci ha indirizzato in passato e che abbiamo interiorizzato.

Anche se alcuni pensieri negativi trovano origine nel nostro passato, oggi possiamo cominciare ad adottare nei nostri confronti un atteggiamento più costruttivo. In questo risiede la nostra libertà di scelta.

Se ciò che il nostro giudice interno ci ripete sta limitando la nostra vita, possiamo infatti decidere di non aderirvi e allenarci a vedere noi stessi in una chiave più positiva.

Allenamenti per un dialogo interno più costruttivo

Vi propongo questo esercizio per lavorare sul parlare bene a voi stessi: prestate attenzione al modo in cui parlate a voi stessi durante la giornata e appuntate ciò che vi ripetete in un diario. Segnate su una colonna tutte le volte in cui vi siete parlati da alleati. Segnate invece sull’altra colonna tutte le volte in cui vi siete atteggiati a critici spietati di voi stessi. Nel primo e nel secondo caso che frasi vi siete rivolti? Come vi siete sentiti?

Noterete che, quando vi parlate da alleato, le cose funzionano meglio anche quando non sono proprio positive. Perché allora non provare ad aumentare la frequenza delle volte in cui trattiamo noi stessi in modo più costruttivo?  Si tratta del primo passo per avere successo in tutti gli ambiti.

In altre parole, possiamo scegliere la persona che vogliamo essere scegliendo di rivolgere a noi stessi quei messaggi che hanno l’effetto di espandere la nostra vita e renderci liberi di esprimere la nostra essenza e unicità.

Soprattutto all’inizio non è facile ma questa è l’unica strada per liberare il nostro potenziale e vivere la vita che desideriamo per noi.

Sibilla Ceccarelli – Coach

Per info: sibilla@coach2coach.it

Quattro abitudini negative che ci impediscono di raggiungere i nostri obiettivi.

abitudini negative

Quattro abitudini negative che ci impediscono di raggiungere i nostri obiettivi. Vediamo perché queste quattro abitudini possono portarci a rinunciare ai nostri sogni.

Che si tratti dell’obiettivo di perdere peso o di quello di migliorare le nostre relazioni familiari, ogni cambiamento durevole nella nostra vita è frutto di allenamento, costanza e una buona dose di autodisciplina. Se la nostra meta fosse appunto quella di dimagrire, per raggiungerla dovremo chiaramente mettere in atto dei comportamenti che siano funzionali ad ottenere quel risultato.

“L’autodisciplina è una delle principali radici del successo”

Daniel Goleman

Eppure a volte l’intenzione di cambiare e la forza di volontà che sorregge tale proposito possono non bastare.

Sulla base della mia esperienza personale e di ciò che riscontro nel mio lavoro di Coach, ho notato che esistono delle abitudini che, se presenti, hanno il potere di vanificare tutto il lavoro fatto in vista di un obiettivo. Si tratta di veri e propri indicatori, praticamente certi, del fallimento del nostro proposito.

Queste abitudini hanno infatti il potere di rendere il nostro impegno e gli sforzi compiuti privi di effetto. In molti casi ci possono portare a rinunciare definitivamente ai nostri desideri.

Torniamo all’esempio dell’obiettivo di dimagrire. Mettiamo il caso di essere riusciti ad osservare per un po’ di tempo una dieta ipocalorica senza “sgarrare” ma che, nonostante ciò, si vedano ancora pochi risultati sulla bilancia.

In questo caso potremmo cominciare a dubitare di riuscire davvero a perdere peso grazie al regime alimentare che stiamo seguendo con tanti sacrifici. Magari arriveremmo alla conclusione che se finora non siamo riusciti a raggiungere il nostro obiettivo di peso, non ci riusciremo mai. Potremmo addirittura convincerci che le diete funzionino per gli altri ma non per noi! Insomma, il fatto che risultati più consistenti tardino ad arrivare, potrebbe portare alcuni di noi a scoraggiarsi e ad abbandonare l’obiettivo.

Ecco appunto la prima abitudine che ha l’effetto di sabotare i nostri progetti.

1. Volere tutto e subito senza valorizzare il raggiungimento delle tappe intermedie.

A volte, mentre stiamo percorrendo la strada che ci porta al nostro obiettivo, ci dimentichiamo completamente della situazione da cui siamo partiti e ci concentriamo solo su quanto ancora manca alla meta. Manteniamo il focus solo sullo scarto della situazione attuale rispetto a quella desiderata e non consideriamo i progressi fatti finora. Ciò che abbiamo raggiunto non ci sembra mai abbastanza. In sostanza è come se stessimo scalando una montagna e, anziché essere consapevoli e apprezzare di essere arrivati a buon punto, guardassimo solo la vetta lamentandoci di non averla ancora raggiunta.

Questa abitudine di ragionare “in scarsità” ci mette addosso un’eccessiva pressione che ha l’effetto controproducente di portarci a fuggire dall’obiettivo. In questi casi, infatti, la sfida intrapresa viene vissuta con un carico di stress difficile da sostenere. Al contrario, quando iniziamo a celebrare i successi finora portati a casa, sperimentiamo emozioni positive che innescano un circolo virtuoso che faciliterà il resto del percorso.

2. Essere perfezionisti: “O la perfezione o niente”.

Come dicevano le nostre nonne, “il bene è nemico del meglio”. Ma siamo sicuri che il detto sia sempre valido?

In certi casi, la ricerca della perfezione nello svolgimento delle attività necessarie a raggiungere un obiettivo, può rallentarci enormemente. Nei casi più estremi, il perfezionismo può essere del tutto paralizzante e portarci a rinunciare all’obiettivo. Quando ci poniamo di fronte a una qualsiasi attività perseguendo un ideale di perfezione, diventiamo eccessivamente preoccupati di non commettere errori. Il nostro pensiero oscilla tra due poli opposti: tutto o niente. Ci convinciamo che se non possiamo raggiungere la perfezione sia meglio rinunciare a tutto. A volte, invece, per raggiungere obiettivi a lungo termine occorre mantenere una visione di insieme che ci permetta di superare eventuali errori e cadute, ridimensionandole nell’ottica del percorso nel suo complesso. In sostanza, se anche si compiono degli errori, l’importante è rimettersi presto in carreggiata e non perdersi d’animo buttando all’aria il lavoro svolto fino a quel momento.

Tornando al nostro esempio, se in una giornata non riusciamo a fare a meno di “sgarrare” dalla dieta, questo non vuol dire che tale situazione possa compromettere del tutto l’obiettivo. In questi casi non serve a nulla colpevolizzarsi rispetto all’accaduto. L’essenziale è essere flessibili in modo tale da correggere il tiro e accettare che anche momenti del genere siano parte del percorso. In sostanza si tratta di preferire la perseveranza alla perfezione.

3. Sottovalutare l’impegno necessario.

Appena si decide di perseguire un obiettivo, ci si fa un’idea di massima dell’impegno e dei sacrifici da affrontare. Non sempre però siamo davvero pronti ad investire le energie necessarie al suo raggiungimento né ad affrontare quelle piccole o grandi rinunce che ne conseguono. A volte ci illudiamo che l’obiettivo possa essere raggiunto facilmente non cambiando di una virgola il nostro stile di vita, salvo poi stupirci e piangerci addosso per essere ancora lontani dalla meta. È inevitabile che in questi casi subentri la frustrazione. In realtà, qualunque cambiamento nella nostra vita destinato a durare presuppone impegno e volontà di mettersi in discussione. Occorre quindi fermarsi un secondo e chiedere a noi stessi con sincerità quanto impegno ed energia siamo davvero disposti a investire per realizzare i nostri desideri.

4. Paragonarsi agli altri: “l’erba del vicino è sempre più verde”.

Nessuno dall’esterno può davvero conoscere l’impegno e i sacrifici vissuti dalle persone che sono riuscite a realizzare i propri sogni. Dalla nostra prospettiva possiamo percepire solo la parte più superficiale della vita di chi ci circonda, come se si trattasse della punta di un iceberg. E allora a quanto può servire paragonare la nostra situazione alla loro?

Il fatto di paragonarci agli altri senza essere nei loro panni e conoscere davvero la loro storia, può condurci a una visione falsata della realtà. Potrebbe apparire ai nostri occhi che gli altri ottengano tutto facilmente e senza sforzo, mentre noi siamo gli unici che, malgrado l’impegno, non arrivano a risultati soddisfacenti. Appare evidente come questa prospettiva, oltre ad essere frutto di una visione distorta della realtà, risulti frustrante e diminuisca il nostro livello di autostima.

“È impossibile risolvere un problema con la stessa mentalità che lo ha creato”

Albert Einstein

Se ravvisi una o più di queste abitudini nei tuoi comportamenti, prova a fermarti e fai un bel respiro. Prova a domandarti: “Che cosa posso fare di diverso rispetto a quello che ho fatto finora e che possa condurmi a migliori risultati?” è evidente infatti che i tuoi pensieri e i tuoi comportamenti, che ormai si sono cristallizzati in abitudini, stanno limitando il tuo potenziale. Occorre quindi che tu riconosca quelle che costituiscono abitudini disfunzionali e che cominci ad allenarti a sostituirle con pensieri e comportamenti che possano favorire il raggiungimento dei tuoi obiettivi.

Sibilla Ceccarelli – Coach

Per info: sibilla@coach2coach.it

Autostima e vero sé

autostima

Autostima e vero sé: allena l’autostima vivendo in armonia con la tua parte più autentica e realizzandoti in un progetto di vita che valorizzi la tua unicità.

“Tanto non ce la faccio”, “Non riesco a decidermi”, “Cosa penseranno di me?”

Ti capita spesso di sentire dentro di te una voce che ripete frasi del genere? Ebbene, probabilmente la tua autostima necessita di essere allenata.

Magari da bambino sapevi perfettamente che lavoro avresti voluto fare da grande, dove avresti voluto vivere e che tipo di famiglia ti sarebbe piaciuta. Poi crescendo hai iniziato a dubitare di te stesso e della bontà dei tuoi desideri e inclinazioni. In famiglia, a scuola e gli amici hanno incominciato a dirti che “il liceo classico ti apre la mente” nonostante la tua passione fosse la matematica, che “il posto fisso ti dà più tutele”  e che “i figli vanno fatti prima dei 35 anni”.

In altre parole, i modelli e i precetti che ti venivano proposti dall’esterno hanno iniziato a condizionare le tue scelte in ogni ambito della tua vita (quello professionale, delle relazioni ecc.). Gradualmente e senza neanche accorgertene, hai iniziato a infilare i tuoi sogni in un cassetto impolverato buttando via la chiave.

Senso di smarrimento e frustrazione

Magari oggi “sulla carta” hai tutto quello che la società ti spinge a desiderare: una casa, un lavoro, una famiglia ecc. Tuttavia sperimenti un senso di smarrimento e frustrazione. Malgrado tutto non ti senti pienamente realizzato e soddisfatto della tua vita.

Ti sei lasciato trascinare dalla corrente lasciando che fossero i tuoi cari, la società o la paura del futuro a scegliere per te. Hai intrapreso strade già battute senza avventurarti a trovare il tuo personale sentiero. Hai rinunciato a intraprendere quelle scelte che ti avrebbero permesso di esprimere e valorizzare la tua unicità consentendoti di essere felice.

Il vero sé

Per uniformarti alle aspettative ed essere accettato dagli altri probabilmente ti sei allontanato dal tuo vero sé. 

Il vero sé è tua parte più autentica, la tua fonte di saggezza interiore che ti spinge a perseguire ciò ti rende felice in ogni aspetto della tua vita.

Forse hai rinunciato a seguire la tua vocazione lavorativa perché pensavi che non ci fosse richiesta per quel ruolo sul mercato. Oppure hai lasciato quel partner di cui eri innamorato perché non rispondeva alle aspettative della tua famiglia. In breve hai abdicato a ciò che ti rendeva felice in nome della paura, delle aspettative altrui, della voglia di certezze ecc. A mano a mano hai disimparato ad ascoltare le istanze della tua anima.

In fondo non c’è nulla di male a voler evitare di rischiare. Ma che prezzo ha questa apparente sicurezza? Cosa hai sacrificato in nome dell’approvazione altrui?

Hai perso lungo la strada la tua originalità. Nel tentativo di conformarti a modelli imposti dalla società e dai mass media, hai rinunciato ad autorealizzarti in ogni ambito della tua vita coltivando e valorizzando gli aspetti di te che ti rendono unico. E questo ha avuto un impatto negativo sulla tua autostima.

Si è innescato un circolo vizioso: più cerchi di uniformarti ai modelli imposti dall’esterno e più la tua autostima decresce.

Oggi ti senti vulnerabile ai giudizi e ai desideri degli altri e ti sembra di non riuscire ad esprimere a pieno  la tua personalità. La capacità di autorealizzarti grazie alla piena espressione delle tue potenzialità è in crisi. Pertanto, il livello di autostima continua ad abbassarsi.

Hai la libertà di scelta ma non sai più usarla per individuare un progetto di vita che rispecchi la tua unicità.

Cosa ti rende felice?

Se vuoi vivere e non “sopravvivere”, occorre che delini il tuo progetto di vita tenendo conto delle istanze del tuo vero sé. In altre parole, le decisioni strategiche che riguardano gli aspetti principali della tua vita devono consentirti di valorizzare la tua unicità ed esprimere a pieno le tue potenzialità.

Se questo non avviene la sensazione che sperimenti è quella di perenne insoddisfazione e apatia senza che apparentemente  ci sia un buon motivo.

Se è da molto tempo che non ascolti più la tua voce interiore e non sei connesso con i tuoi desideri più autentici potresti incontrare difficoltà a percepire cos’è che ti rende davvero felice.

Spesso infatti accade che sappiamo perfettamente cosa non vogliamo nella nostra vita, dal traffico a un lavoro che non ci soddisfa, ma non abbiamo più idea di cosa desideriamo davvero.

Per sintonizzarti con il tuo nucleo originario prova a riscoprire cosa ti piace, cosa ti fa stare bene e quali sono i tuoi valori.

Presta attenzione ai momenti in cui all’interno della giornata ti senti più in armonia con te stesso. Quando avvengono? Mentre fai una camminata la mattina andando a lavoro? nel momento in cui trascorri una serata con gli amici? Ricomincia a prenderti cura di te ritagliando più spazio a questi momenti di ordinario benessere.

Inizia a coltivare le passioni che magari hai abbandonato, a prescindere se possano avere o meno uno sbocco lavorativo.

Esprimi le tue potenzialità

Una delle principali  cause della mancanza di autostima è la scarsa consapevolezza dei propri punti di forza.

La società fin da bambini ci mette al corrente solo dei nostri difetti. A scuola, in famiglia, a lavoro ecc., si tende a mantenere il focus su ciò che non va. Per questo finiamo per conoscere perfettamente ogni nostro limite, reale o presunto tale, ma non abbiamo consapevolezza delle nostre potenzialità.

L’autostima invece nasce proprio dalla consapevolezza dei propri punti di forza e della possibilità di raggiungere i nostri obiettivi grazie ad essi.

Ad esempio, se Bebe Vio si fosse concentrata su tutto quello che non poteva fare per via della sua menomazione probabilmente non sarebbe mai diventata una grande atleta paralimpica. Per raggiungere grandi risultati ha  invece valorizzato quelli che sono i suoi punti di forza come ad es. la determinazione e la perseveranza.

E tu conosci le tue potenzialità? Riesci ad esprimerle a pieno sul lavoro e nelle tue relazioni?

Una delle caratteristiche delle potenzialità è quella di generare grande soddisfazione nel momento della loro espressione e, viceversa, un terribile senso di malessere nel caso in cui risultino frustrate.

Probabilmente in questo momento hai una serie di potenzialità che non trovano spazio adeguato nella tua vita e questo può generarti un disagio. Ad esempio, se hai grandi doti di intelligenza sociale e gentilezza ma il tuo lavoro ti costringe a stare tutto il giorno da solo davanti a un pc questo potrebbe portare a sentirti frustrata e insoddisfatta.

Per incrementare la tua autostima e delineare obiettivi in linea con il tuo vero sé occorre riscoprire le tue potenzialità e trovare il modo di allenarle in ogni campo della tua vita.

Delinea un progetto di vita in armonia con il vero sé

Esplorata la tua concezione di felicità e le tue potenzialità, potrai individuare una serie di obiettivi nelle varie sfere della tua vita che siano in armonia con la tua parte più autentica.

Non deve necessariamente trattarsi di un cambio radicale di vita. Non si tratta di lasciare il proprio lavoro o cambiare partner a tutti i costi. Per essere in armonia con il tuo vero sé potrebbe bastare il fatto di trovare un modo di esprimere le tue potenzialità nei vari ambiti della tua vita.

Capirai essere sulla buona strada quando proverai la sensazione di stare nel momento giusto al posto giusto a fare la cosa giusta (per te!).

Ogni successo avrà un altro valore rispetto a prima perché non starai più realizzando obiettivi imposti dall’esterno bensì il progetto che tu hai scelto per te stesso in modo consapevole e libero. Si innescherà un circolo virtuoso che incrementerà il tuo livello di autostima.

Quando viviamo in armonia con il vero sé sperimentiamo un’autostima spontanea. Ci apriamo al mondo  e sentiamo una spinta a condividere con gli altri sentimenti positivi.

Il Coach può essere un facilitatore di questo processo in quanto può aiutarti a diventare consapevole delle tue potenzialità facendo venire alla luce la tua originalità e unicità.

Sibilla Ceccarelli – Coach

Per info: sibilla@coach2coach.it

La proattività: una risorsa per trasformare positivamente ogni situazione.

la proattività

La proattività: una risorsa per trasformare positivamente ogni situazione. Essere proattivi significa saper agire in modo consapevole e responsabile.

“Perché le cose non vanno come dico io? Non è giusto… non può essere così”

Spesso, quando le cose non vanno come vorremmo, restiamo imbambolati come il bambino a cui è stato tolto il giocattolo dalle mani oppure puntiamo i piedi come in attesa di una figura adulta che possa finalmente darci ciò di cui abbiamo bisogno.

Magari il lavoro non sta andando così bene, non ci sentiamo amati dal nostro partner oppure troviamo il nostro capo insopportabile. La vita ci presenta continuamente dei (buoni?) motivi per sentirci delusi rispetto alle nostre aspettative oppure frustrati rispetto ai nostri desideri. Il punto è: come reagiamo quando una circostanza non volge a nostro favore? La possibilità di ribaltare la situazione in positivo dipende in gran parte dai pensieri che si susseguono nella nostra testa in questi frangenti e dal comportamento adottiamo.

Spesso non accettiamo la realtà così com’è, facciamo resistenza ad essa. Ci concentriamo nel trovare a tutti i costi un “perché”, senza successo. Il risultato di questo atteggiamento? Solo tanto dolore e frustrazione.

Arriviamo a un punto di stallo, di paralisi e ci sentiamo totalmente impotenti, privi della capacità di cambiare la situazione che ci crea sofferenza. Ed è a questo punto che entriamo nel loop della lamentela.

La lamentela

“Il mio capo è un infame”, “mio marito non mi dà mai retta”, “è inutile sperare di aumentare il mio fatturato…c’è la crisi!”.

Tutta la nostra frustrazione sfocia in una lamentela continua rivolta verso tutto e tutti. Spesso riguarda  persino le condizioni meteo e altri fatti immodificabili per definizione.

Certo, “sulla carta” hanno ragione coloro che impiegano tempo ed energie per ripetere a se stessi e al resto del mondo i motivi per i quali una situazione è così difficile o una persona è così negativa. Il punto però è: questo può cambiare le cose?

Tra l’altro, lamentandoci continuamente finiamo per risultare “tossici” per noi stessi e per chi abbiamo intorno.

Non abbiamo il potere di scegliere cosa accade o non accade nella nostra vita. Che noi la riteniamo giusta o meno, che ci sembri positiva o negativa, la situazione non cambia di una virgola.

C’è una cosa però che è in nostro pieno potere, ed è il nostro comportamento rispetto alle persone e alle circostanze. Abbiamo sempre la possibilità di scegliere la reazione rispetto a una situazione, ed è come reagiamo a fare la differenza.

Concentrare le nostre energie mentali sulla soluzione del problema piuttosto che sul problema è l’unico modo per incidere sulla nostra realtà e rivoluzionare in positivo anche le situazioni più avverse.

Tra lo stimolo e la risposta c’è la libertà di scelta

S. R. Covey

La proattività

La proattività ci consente di avere un atteggiamento attivo verso la vita. Grazie alla proattività siamo infatti in grado di creare le situazioni favorevoli invece di limitarci a subire quelle sfavorevoli.

Anziché reagire in modo automatico oppure subire in modo passivo le situazioni, la proattività ci permette di agire in modo consapevole e responsabile. Senza questa potenzialità non saremmo in grado di raggiungere nessun obiettivo nella nostra vita.

Proattivo, passivo o reattivo?

Quando non ci comportiamo in modo proattivo siamo passivi o reattivi.  mentre l’essere proattivi significa allenarsi a scegliere come comportarsi davanti alle situazioni senza innescare il meccanismo di lotta (resistenza) oppure fuga.

Cosa significa quindi essere proattivi?

Se c’è qualcosa che va diversamente da come avremmo voluto, avere un atteggiamento proattivo significa assumersi la propria parte di responsabilità rispetto a ogni circostanza chiedendoci in che modo possiamo comportarci per cambiare le cose.

Cosa possiamo trarre di positivo dalla situazione presente? Cosa ci sta insegnando? e soprattutto… Come possiamo volgerla a nostro favore?

Se vogliamo davvero migliorare la situazione, possiamo lavorare sull’unica cosa su cui abbiamo il controllo: noi stessi.

Invece di crogiolarci nella lamentela e puntare il dito verso gli altri come se i problemi fossero sempre “fuori” di noi, cominciamo a chiederci cosa possiamo fare per cambiare le cose.

“Guarda alle debolezze degli altri con comprensione, non con occhio accusatorio. La questione non è quello che gli altri non stanno facendo o che dovrebbero fare. La questione è la risposta che hai scelto di adottare in quella data situazione e ciò che tu potresti fare per migliorare le cose. Se inizi a pensare che il problema sia “fuori” di te, fermati. Il problema è proprio quello stesso pensiero.”

S. R. Covey

Possiamo smettere di voler cambiare la testa del nostro partner e lavorare invece sulle nostre debolezze. Possiamo concentrarci sull’obiettivo di essere un bravo collaboratore propositivo e orientato alle soluzioni; il nostro capo insopportabile avvertirà il potere dell’esempio proattivo e risponderà in modo positivo. In ogni caso, quale che sia la sua reazione, il modo migliore in cui possiamo influire sulla nostra situazione è di lavorare su ciò che dipende da noi.

“Certe volte la cosa più proattiva che possiamo fare è essere felici, semplicemente sorridere di cuore. La felicità, come l’infelicità, è una scelta proattiva”.

S. R. Covey

Ci sono cose, come il cattivo tempo che non saranno mai sotto il nostro controllo. Ma se siamo persone proattive saremo in grado di accettare le cose che non possiamo controllare mentre concentriamo i nostri sforzi sulle cose che possiamo controllare.

Da “Giudici” severi a modelli positivi per gli altri

Probabilmente qualcuno di noi vorrebbe  migliorare la comunicazione con un figlio un pò ribelle oppure smetterla di litigare continuamente con il collega insopportabile o risolvere situazioni analoghe. Per quanto ci sforziamo di migliorare questi rapporti, tuttavia, spesso riusciamo solo a notare errori e difetti altrui senza far caso al nostro comportamento.

Proviamo invece per un attimo a sospendere il giudizio negativo verso gli altri e a interrogarci su cosa noi siamo disposti a fare per i nostri rapporti interpersonali. Potremmo ad esempio cominciare ad ascoltare con più attenzione, a mantenere gli impegni, ad avere un approccio positivo nei confronti degli altri e così via.

In altre parole, se riusciremo a smettere i panni del giudice e del critico intransigente e cercare di essere un esempio positivo per gli altri, l’ambiente ci risponderà positivamente come se fosse uno specchio che riflette l’immagine da noi proiettata.

 

Sibilla Ceccarelli – Coach

Per info: sibilla@coach2coach.it

“Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare” Dal film “Noi siamo infinito” di Stephen Chbosky

l'amore

“Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare” Dal film “Noi siamo infinito” di Stephen Chbosky. In altre parole, l’amore che riceviamo dagli altri spesso rispecchia l’amore che nutriamo verso noi stessi.

“Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare”.

Dal film “Noi siamo infinito” di Stephen Chbosky.

Una volta un’amica mi ripeté questa frase di un film che l’aveva colpita molto e da subito mi accorsi di quanto fosse vera.
C’è una corrispondenza diretta tra l’amore che pensiamo di meritare e quello che siamo disposti ad accettare dagli altri.
Se siamo convinti di non meritare amore e di essere “sbagliati”, di avere una miriade di difetti che rendono qualunque persona che scelga di starci vicino una sorta di benefattore da non farsi scappare, finiremo per perdere di vista il nostro benessere e ci incastreremo in storie d’amore che ci fanno soffrire.
Ci accontenteremo passivamente di relazioni d’amore che ci stanno “strette” o che ci provocano dolore, pur di non perdere la persona che abbiamo accanto. Ci faremo governare dalle logiche del bisogno e della scarsità che ci fanno credere che sia meglio stare con una persona che non ci fa stare bene piuttosto che restare da soli. Senza neanche rendercene conto, abbasseremo l’asticella del rispetto che esigiamo dall’altro e arriveremo ad accettare dal partner anche “le briciole”.

L’amore verso se stessi

Per molti di noi l’amore incondizionato verso se stessi non è affatto scontato. Molte volte può rappresentare il punto di arrivo di un percorso di evoluzione personale.

“Merito davvero di essere amato?”

Spesso questo interrogativo implicito è cruciale nella nostra vita. La risposta – pressoché inconsapevole –  influenza in modo determinante il modo in cui viviamo il rapporto con noi stessi e con gli altri.

Quando non percepiamo il valore che nasce dalla nostra unicità ed esiste a prescindere dai riconoscimenti esterni, facciamo entrare una grande sofferenza della nostra vita.

Sperimentiamo un costante senso di mancanza e non ci sentiamo degni di essere felici, neppure in una storia d’amore.

Cominciamo a pensare di non essere “abbastanza” in ogni ambito della nostra vita e diventiamo schiavi dell’approvazione altrui, rinunciando di fatto alla nostra libertà.

Se nel profondo di noi stessi ci sentiamo fondamentalmente “sbagliati” e “difettosi”, in ogni circostanza cercheremo l’errore dentro di noi e non negli altri. Tenderemo quindi a giustificare qualunque comportamento negativo nei nostri confronti.

La mancanza di autostima rappresenta sicuramente un ostacolo alla legittima aspirazione di molti di noi di vivere una relazione d’amore che ci faccia stare bene.

Questo è il motivo per cui è così importante sentire nel profondo il proprio valore. Il rispetto e la considerazione che riceviamo dagli altri infatti, spesso rispecchiano quelli che riserviamo a noi stessi.

Il valore che ci attribuiamo ci torna dall’esterno

Proprio partendo dalla scoperta e dalla valorizzazione dei propri punti di forza e perseguendo la realizzazione personale in ogni ambito della vita, è possibile allenarsi a percepire il proprio valore personale. Solo in questo modo infatti è possibile vivere una vita piena e appagante, a prescindere dalla presenza di un partner.

Grazie a un percorso di Coaching è possibile acquisire una piena consapevolezza delle proprie potenzialità e di come è possibile utilizzarle per raggiungere i propri obiettivi. In questo modo sarà possibile star bene con se stessi anche se si è single. Percepirsi come “un frutto intero”, come individui completi e centrati su se stessi è la necessaria premessa per essere pronti a vivere finalmente una relazione d’amore positiva e gratificante.

Quando non percepiamo il nostro valore personale, ci sentiamo incompleti e bisognosi e abbiamo l’esigenza di trovare un partner a tutti i costi. In questi casi tendiamo ad accontentarci della prima situazione che ci capita.

Nel momento in cui invece cominciamo a dare valore a noi stessi, questo valore ci tornerà dall’esterno.

Saremo pienamente consapevoli del fatto che la nostra vita può essere bella e gratificante anche se siamo single.

Sceglieremo di iniziare una relazione solo se sentiremo di aver incontrato una persona davvero meritevole di starci accanto.
Finalmente non saremo più disposti ad accettare comportamenti che ci fanno soffrire pur di non perdere una persona. A quel punto non accetteremo più nulla di diverso da ciò che ci fa stare bene.

Sibilla Ceccarelli – Life & Business Coach

sibilla@coach2coach.it

Obiettivi. Il modo in cui si formula un obiettivo è fondamentale per il suo raggiungimento.

obiettivi

Obiettivi. Il modo in cui si formula un obiettivo è fondamentale per il suo raggiungimento. Come individuare i tuoi obiettivi in modo da aumentare le possibilità di portarli a termine.

Secondo le statistiche, solo l’8% di chi stabilisce degli obiettivi per il nuovo anno riesce a raggiungerli. Tu rientri in questa ristretta percentuale?

Di tutti gli obiettivi che ti prefiggi, quanti ne riesci effettivamente a raggiungere?

Spesso, nonostante la nostra determinazione, abbandoniamo gli obiettivi ben prima della loro realizzazione.

Dal proposito più semplice di iscriversi in palestra a quello più complesso di cambiare lavoro, molti obiettivi sono destinati ad avere vita breve fin dalla loro nascita.

Nella maggior parte dei casi, infatti, alla forza di volontà non fanno seguito azioni congruenti rispetto al fine. In questo modo, a lungo andare, finiamo per abbassare il nostro livello di autostima e il senso di autoefficacia. Le possibilità concrete di realizzare i nostri obiettivi per il futuro diminuiscono sempre di più.

Perché è così difficile concretizzare i propositi che ci prefiggiamo?

Accade spesso che l’obiettivo venga formulato in modo poco efficace.

È di capitale importanza, infatti, che l’obiettivo sia il più specifico e dettagliato possibile. Vediamo quali sono i modi per stabilire gli obiettivi in modo da favorire la loro realizzazione.

Passa dal “devo” al “scelgo”

“Quando voglio farlo ottengo risultati migliori di quando devo farlo.

Voglio farlo per me, devo farlo per te. L’automotivazione è una questione di scelta”.

Sir John Whitmore

Ripetere a te stesso “devo dimagrire” ha un impatto su di te ben diverso della frase “voglio dimagrire”.

Nel caso del dovere, infatti, percepirai l’obiettivo come imposto dall’esterno. Se “devi” dimagrire, significa che questo imperativo non è sorretto da una motivazione ben radicata in te. Probabilmente, la tua intenzione di dimagrire è motivata dal tentativo di conformarti alle richieste della società, del partner, della famiglia ecc.

Intendi dimagrire perché desideri davvero farlo oppure perché stai interiorizzando una motivazione che proviene dalla società?

Nel caso in cui invece tu percepisca l’obiettivo come frutto di una libera scelta ed espressione di un tuo desiderio autentico, ti assumerai la piena responsabilità della sua realizzazione che dipenderà esclusivamente dalla tua volontà.

Passare dalla dimensione del “dovere” a quella della “scelta”, dunque, è di primaria importanza per favorire il raggiungimento di un obiettivo.

Caratteristiche di un obiettivo efficace

obiettiviUn buon obiettivo deve essere SMART. L’acronimo sta per:

SPECIFICO (formulato in modo chiaro e privo di ambiguità);

MISURABILE (deve essere possibile verificarne i progressi e il raggiungimento);

“ATTAINABLE” ovvero RAGGIUNGIBILE;

RILEVANTE;

TEMPORALMENTE CIRCOSCRITTO (deve essere stabilito un periodo ben definito entro il quale l’obiettivo deve essere raggiunto).

È altrettanto importante che l’obiettivo sia stimolante e sfidantealtrimenti potrebbe subentrare ben presto la noia.

Se un obiettivo non è realistico non c’è speranza che si realizzi, ma se non è stimolante non c’è motivazione a sorreggerlo.

Una volta individuato, l’obiettivo deve essere messo per iscritto. La scrittura ha infatti il potere di fare chiarezza su ogni pensiero e di fissarne definitivamente il contenuto.

Formula l’obiettivo in positivo

“Tendiamo a ottenere ciò su cui ci concentriamo. Se temiamo di fallire, la nostra attenzione è puntata sul fallire, ed è quello che otterremo”.

Sir John Whitmore.

È molto importante formulare gli obiettivi in positivo.

Cosa succede se un obiettivo è espresso in negativo?

Se ti dico “non pensare a un palloncino rosso” cosa ti viene in mente?

Un obiettivo formulato in negativo predispone la nostra mente affinché esso si realizzi, dunque è del tutto controproducente. Gli obiettivi espressi in negativo si possono facilmente trasformare in positivo, ad esempio: “non voglio più soffrire per amore” può essere trasformato in “voglio una relazione felice e appagante”.

Individua un obiettivo performance

L’obiettivo risultato è indispensabile per ispirare le nostre azioni. È un sogno a cui tendere.

Obiettivi risultato sono ad esempio quelli di vincere una partita di calcio oppure trovare la propria anima gemella.

Affinché un obiettivo risultato sia realizzabile, però, è necessario che esso sia sostenuto dal c.d. obiettivo performance.

Gli obiettivi risultato, infatti, hanno la caratteristica di non essere sotto il nostro pieno controllo. Vincere una partita di tennis, ad esempio, dipende dalla nostra performance ma anche da quella dell’avversario.

Il contesto non è controllabile, dunque l’obiettivo risultato porta a uno stato di ansia per via della volontà di controllare ciò che non è in nostro potere.

Ciò che dipende da noi è invece la nostra performance. Quanto più l’attenzione è concentrata su ciò che puoi controllare, tanto più aumentano le possibilità di raggiungere i tuoi obiettivi risultato.

Gli obiettivi performance si focalizzano sull’allenamento e il miglioramento della tua performance. Per esempio, quante volte alla settimana ti alleni per una gara?

Questi obiettivi sono sotto il tuo controllo in quanto riguardano le tue azioni.

Grazie agli obiettivi performance, inoltre, è possibile verificare il progresso verso l’obiettivo risultato.

Scegli un obiettivo in linea con la parte più autentica di te

Non scordarti di verificare che l’obiettivo che intendi realizzare sia coerente e in armonia con i tuoi valori.

Per esempio, se intendi guadagnare di più aumentando il numero delle commesse di cui ti occupi, potrebbe essere necessario che tu diminuisca il tempo che dedichi alla famiglia. Sei davvero disposto a sacrificare parte del tempo che trascorri con i tuoi figli per raggiungere il tuo obiettivo?

Se un obiettivo entra in contrasto con il tuo sistema di valori, si crea dentro di te un conflitto che porterà inevitabilmente al fallimento del tuo proposito.

Stabilisci un piano d’azione efficace

A questo punto occorre stabilire un piano d’azione che suddivida l’obiettivo in obiettivi intermedi in modo da poter verificare i progressi fatti.

La presenza di “tappe intermedie” permette di raggiungere obiettivi mano a mano sempre più sfidanti. Contemporaneamente, nel verificare i graduali progressi che ti avvicinano alla meta, aumenta il tuo livello di autostima , fondamentale per raggiungere con successo ogni traguardo.

Sibilla Ceccarelli – Coach

Per info: sibilla@coach2coach.it

Fame fisiologica o “fame emotiva”?

Fame fisiologica o “fame emotiva”? La “fame emotiva”, grande nemica della dieta. Come sconfiggerla e conquistare la linea che desideri.

Quante volte ti è capitato di non essere costante nella dieta a causa d’improvvisi attacchi di fame? Quante volte, in particolare, il senso di fame era connesso a emozioni spiacevoli?

Sto parlando di quell’appetito incontrollabile che ti spinge a sgranocchiare snack al cioccolato, patatine o altri alimenti ipercalorici nel tentativo di colmare un senso di vuoto, una carenza di gratificazione, di affetto e più in generale di emozioni positive.

Questa condotta alimentare dipende da fattori emotivi. Il cibo in questo caso assume la funzione di valvola di sfogo rispetto a qualcosa che non va come vorresti nella tua vita.

Si tratta di un problema molto comune, che facilmente viene confuso con la fame vera e propria, che risponde a un’esigenza di nutrimento dell’organismo. È tuttavia importantissimo riconoscerla perché è uno delle principali cause di fallimento di un regime alimentare ipocalorico.

Quando la fame nervosa diviene cronica e si attuano frequentemente le c.d. “abbuffate” questa abitudine può diventare un vero e proprio disturbo alimentare, ovvero il “binge eating.

Se stavolta hai deciso davvero di perdere i chili di troppo, gli attacchi di fame nervosa rischiano purtroppo di vanificare tutto il tuo impegno nel seguire una dieta ipocalorica.

Un lavoro su te stesso, guidato da un Coach, può aiutarti a correre ai ripari e a non compromettere il tuo obiettivo.

Occorre infatti che diventi consapevole delle emozioni che si celano dietro questa condotta alimentare invece di soffocarle con il cibo.

Perché la “fame emotiva” è così pericolosa per la tua linea?

Questo tipo di appetito, avendo origine nelle emozioni che lo hanno evocato, è più difficile da soddisfare.

Se la fame risponde a una reale esigenza dell’organismo, una volta che si è mangiata la quantità di cibo di cui il corpo necessita, si raggiunge la sazietà.

Se invece si tratta di fame nervosa, si può arrivare a consumare in breve tempo enormi quantità di cibo senza provare alcuna soddisfazione. Gli alimenti, infatti, non sono in grado di soddisfare le esigenze emotive da cui scaturisce la voglia di mangiare.

Quali emozioni possono generare la spinta compulsiva a mangiare?

In alcuni casi, a provocare l’aumento dell’appetito è l’ansia rispetto a eventi futuri o prove che ti fanno sentire sotto pressione e che ti preoccupano.

Altre volte finisci per utilizzare il cibo per placare la rabbia nei confronti di una persona o di una situazione rispetto alla quale ti senti impotente. Spesso infatti si evita di esprimere la rabbia in quanto vissuta come un’emozione inaccettabile.

Anche la solitudine può innescare questa condotta alimentare. In questi casi puoi percepire il cibo come l’unica fonte sicura di gratificazione.

Il cibo, poi, può assumere una funzione consolatoria rispetto alla tristezza che scaturisce da un evento doloroso o da una delusione.

E ancora, si può mangiare per “punirsi” e placare il senso di colpa, o magari per noia, per paura e così via.

Come vincere la “fame emozionale”

Ti sei riconosciuto in una o più di queste situazioni?

Vuol dire che è arrivato il momento di individuare e trasformare qualche aspetto della tua vita che ti provoca disagio o addirittura sofferenza, smettendola di metterlo a tacere con gli spuntini.

La chiave della soluzione del problema risiede proprio nella consapevolezza.

Per disinnescare il meccanismo occorre infatti che diventi cosciente del tuo stato emotivo nel momento in cui senti l’impulso di mangiare. Basta che ti fermi un attimo e poni a te stesso alcune domande: “il mio corpo ha davvero bisogno di mangiare? Che emozione sto provando?”.

In questo modo si può comprendere se la fame risponde o meno a un’esigenza fisiologica.

Se percepisci che il bisogno è di tipo emotivo, è il caso che ti chieda: “questa tavoletta di cioccolata è davvero in grado di farmi stare meglio?”

Sfortunatamente, la riposta è “no”. La tua paura o il tuo bisogno di compagnia resteranno proprio lì dove li hai lasciati. Il nutrimento emotivo in termini di conforto, rassicurazione e consolazione che trai dal cibo è solo temporaneo e non destinato a durare.

Spesso poi, dopo un temporaneo momento di gratificazione, l’abbuffata lascia spazio al rimorso e al senso di gonfiore. Insomma, puoi sentirti peggio di prima mentre il bisogno che ti ha spinto a mangiare resta del tutto insoddisfatto.

Prova a ricordare a te stessa la sensazione negativa che provi dopo le abbuffate. Puoi annotarla su un diario e rileggerla ogni volta che senti l’impulso di mangiare.

Il fatto di associare mentalmente alle abbuffate le sensazioni negative che ne conseguono, ti aiuterà a far sì che non si ripetano.

Una volta divenuto consapevole delle emozioni che ti spingono verso il cibo, nelle sessioni con il tuo Coach puoi esprimerle e individuare le situazioni e gli aspetti della tua vita in cui trovano origine.

C’è qualcosa nella tua vita che intendi cambiare? Hai un rapporto con una persona che è costantemente fonte di emozioni negative? Le tue paure rispetto a un evento sono realistiche? Fai qualcosa di concreto per sentirti meno solo?

Attraverso questo tipo di interrogativi e con l’aiuto del tuo Coach, puoi arrivare a individuare le emozioni e i sentimenti alla base delle abbuffate.

Grazie al percorso di Coaching puoi lavorare sulle situazioni della tua vita che generano quel malessere che ti impedisce di essere regolare nella condotta alimentare.

Essere costanti nella dieta e perdere i chili di troppo diventerà molto più facile!

Sibilla Ceccarelli

sibilla@coach2coach.it

Il fallimento è fondamentale per arrivare al successo.

Fallimento

Il fallimento è fondamentale per arrivare al successo. Fallire non è una sconfitta ma contribuisce a conoscere e superare i propri limiti.

Fallimento e successo sono due parole dal significato apparentemente distante e antitetico. Eppure la realtà ci dimostra che non è così. Potremmo, al contrario, dire che il fallimento e il successo siano due facce della stessa medaglia e che l’una non possa prescindere dall’altra.

Se diamo un’occhiata alla biografia dei personaggi famosi che hanno raggiunto risultati straordinari in ogni campo, scopriremo che, gran parte di loro, una o più volte nella vita, ha avuto dei grandi momenti di difficoltà in ambito professionale.

Esiste ad esempio un’ampia casistica di rifiuti incassati da celebri attori, cantanti, scrittori da parte di produttori, editori e così via che va dai Beatles a Stephen King. Per citare un episodio, è rimasto alla storia l’estromissione di Steve Jobs dalla Apple, azienda che lui stesso aveva fondato.

Se è vero che anche le persone di successo falliscono, cosa permette loro di raggiungere l’eccellenza laddove altri non riescono?

La differenza sta nel modo in cui vivono il fallimento.

“Il successo è l’abilità di passare da un fallimento all’altro senza perdere l’entusiasmo”.

Winston Churchill

Le persone di successo falliscono molto. Spesso falliscono anche di più di quanto riescano. Il punto è che riescono a usare l’energia che proviene dal fallimento per passare alla fase successiva.

Chi coglie nel fallimento un’opportunità di crescita, riesce a trarre nuova saggezza dall’esperienza negativa. Il fallimento infatti porta con sé un insegnamento che permette di compiere un salto in avanti nel percorso verso l’obiettivo.

Ogni risultato negativo, se analizzato con lucidità e coraggio, può aumentare la tua consapevolezza circa la tua situazione attuale. Inoltre può fornirti importanti indicazioni sul modo più opportuno per correggere il tiro.

“Che cosa ho imparato da questa esperienza?”

Grazie a questa domanda è possibile capire quali competenze, skills o azioni saranno necessarie per ottenere il risultato sperato.

Affinché sia possibile analizzare l’episodio in modo razionale, però, occorre evitare di caricarlo di significati ulteriori.

Chi non circoscrive la portata del fallimento al singolo episodio ma, al contrario, ne trae una valutazione negativa sulla sua persona, è infatti portato a rinunciare al suo intento. In questo caso, ogni fallimento è vissuto come punto di non ritorno.

Ecco il motivo per cui nella vita non basta avere talento per raggiungere livelli di eccellenza. Per riuscire in ogni ambito, occorre anche avere un approccio costruttivo e non distruttivo al fallimento.

Aver fallito non significa essere dei “falliti”

La paura è una delle emozioni di base dell’essere umano. Essa ci accompagna lungo il percorso della nostra realizzazione personale che è pieno di ostacoli da superare. È dunque perfettamente normale il fatto di avere paura di fallire.

Se attribuisci però ad ogni prova che la vita presenta la valenza di dimostrazione circa il tuo valore a 360 gradi, la paura può diventare paralizzante.

Sovraccaricare ogni sfida di un significato ulteriore rispetto all’episodio in sé può portare a evitare di mettersi alla prova.

Alcune persone preferiscono non sfidarsi pur di non rischiare di fallire. In questo modo limitano le loro scelte e azioni bloccando la loro autorealizzazione.

“Non sono in grado… ho fallito anche stavolta…sono un fallito”

Ti capita di ripeterti frasi del genere quando non ottieni il risultato sperato?

Ricordati che quanto vali non dipende dai risultati che ottieni. Un risultato negativo può darti informazioni circa la qualità della tua performance, non riguardo alla persona che sei.

Se per te ogni sfida assume un valore esistenziale, nel caso in cui non otterrai l’obiettivo desiderato, finirai per rinunciare al tuo proposito.

È importante invece che ricordi che ogni esperienza di fallimento è ricollegabile a un episodio specifico. In altre parole, hai sbagliato ma non sei sbagliato.

L’allenamento è un fallimento intenzionale

Per autosuperarsi occorre vivere al limite delle proprie capacità, dove è quasi certo che si fallirà. Questa è la ragione per cui è necessario esercitarsi.

“Allenarsi significa progettare e realizzare, sperimentare e imparare, ripetere e ancora ripetere fino a che la sequenza successiva di azioni non sia migliore della precedente”

Luca Stanchieri

Attraverso la ripetizione costante di un’azione, ci si scontra con i propri limiti più e più volte fino al punto di riuscire gradualmente a superarli. In questo modo è possibile raggiungere livelli sempre più elevati di performance.

In quest’accezione, l’allenamento è un fallimento intenzionale. Come accade nell’esercizio fisico, ogni volta che raggiungiamo il nostro limite siamo convinti di non poter andare oltre. Arriva però un momento in cui mettiamo in atto quel cambiamento che rende possibile ciò che prima era impossibile.

Ogni fallimento, dunque, può essere un gradino in più verso la tua realizzazione personale. Imparare a leggere il fallimento come una lezione da imparare invece che come una sconfitta esistenziale, è fondamentale per diventare una persona di successo e raggiungere i tuoi obiettivi.

Sibilla Ceccarelli – Coach

sibilla@coach2coach.it

Perdonare ti rende libero dal passato e ti consente di fare spazio di nuovo all’amore nella tua vita

perdonare

Perdonare ti rende libero dal passato e ti consente di fare spazio di nuovo all’amore nella tua vita. Il perdono è un regalo che fai a te stesso.

Una persona cara ti ha fatto soffrire in qualche modo. Magari lo ha fatto senza volerlo e in modo inconsapevole. Eppure non riesci proprio a concederle il perdono.

Imparare dall’esperienza per te ha significato non aprirti e non fidarti più di nessuno in modo da poter evitare ogni delusione.

Apparentemente sei ben disposto verso le relazioni, ma nel profondo non lasci più che nessuno si avvicini al tuo cuore. Sei convinto che questo sia l’unico modo per preservarti dal rischio di provare di nuovo quella sofferenza.

La rabbia combinata con l’amore, l’orgoglio ferito e il rancore fanno sì che il responsabile del tuo dolore sia ancora protagonista dei tuoi pensieri e resti una figura ingombrante nella tua vita.

Paradossalmente, il desiderio di rivalsa e la mancata accettazione di quello che è accaduto ti tengono ancora legato a quella persona.

Nel tuo presente non c’è spazio per l’amore perché sei ancorato al tuo passato.

“Lascia andare o sarai trascinato”.

Proverbio Zen

Che cos’è il perdono?

Perdonare genera un senso di benessere in colui che perdona e in colui che viene perdonato.

Generalmente si pensa che perdonare implichi necessariamente il fatto di aprire di nuovo la propria vita alla persona perdonata.

In realtà, perdonare vuol dire qualcosa di più semplice: accettare quello che è stato.

Il perdono non implica alcun giudizio positivo né negativo. È più che altro una resa nei confronti della realtà.

Suona facile vero? In realtà in molti casi può essere davvero complicato se non addirittura impossibile.

Alcune persone trascorrono una vita intera senza aver perdonato qualcuno che per loro è (stato) importante. La scelta di non perdonare, per assurdo, finisce per procurare loro più dolore del trauma vissuto.

Non perdonare significa opporsi a quello che è stato nell’illusione che questo possa migliorare in qualche modo le cose.

Il passato non è più sotto il tuo controllo e opporvi resistenza è frustrante e del tutto inutile. Anzi, è proprio il fatto di non accettare ciò che è successo a mantenere in vita la tua sofferenza.

Il dolore della ferita relazionale, in questo modo, si cristallizza nella tua vita.

Perché è così difficile perdonare?

La psicologia e le neuroscienze ci insegnano che il nostro cervello è programmato in modo tale da perseguire il piacere ed evitare il dolore.

È ciò che noi leghiamo a questi due stimoli a orientare le nostre scelte e azioni e dunque a determinare la nostra realtà.

Se una persona ti ha fatto del male, il fatto di perdonarla e di aprirle di nuovo uno spiraglio nella tua vita ti fa sentire più vulnerabile e dunque nuovamente esposto al pericolo di soffrire.

Nella tua mente, dunque, prevale più di ogni altra spinta quella a evitare ciò che ormai hai associato al dolore.

Quello che spesso non consideri è che il fatto di non perdonare una persona che è stata importante, in realtà raddoppia la sofferenza.

Al dolore del trauma originario, che resta intatto, si aggiunge il dolore dovuto al fatto di non essere più in grado di aprirti alle relazioni.

Quando perdoni lo fai per te stesso

Perché dovresti perdonare una persona che non si mostra pentita e che non intende riparare al suo comportamento?

La risposta è molto semplice: dovresti perdonarla per il tuo bene.

“Il perdono è un regalo che fai a te stesso”

Tony Robbins

A prescindere dal fatto che sia meritato o meno, perdonare qualcuno ti libera dal passato e ti consente di fare spazio al nuovo nella tua vita.

Perdonare qualcuno non implica affatto che tu riprenda necessariamente una relazione come se nulla fosse accaduto.

Puoi perdonare qualcuno anche se hai realizzato di non avere più interesse a mantenere un rapporto con lui/lei. Allo stesso modo, potrai benissimo scegliere di fare entrare di nuovo la persona nella tua vita.

La tua decisione, qualunque essa sia, non toglierà alcun valore al fatto di aver perdonato.

Perdonare non vuol dire annullarsi per l’altro

La distinzione è di capitale importanza: perdonare non vuol dire affatto consentire a qualcuno di continuare a farti del male.

Se così fosse, il perdono si trasformerebbe in un pretesto per autorizzare l’altro a calpestarti e a svalutarti.

Se sceglierai di ammettere di nuovo una persona nella tua vita dopo averla perdonata, la nuova apertura non sarà una conseguenza automatica del perdono, ma dipenderà dal comportamento di quest’ultima.

In questa accezione, il perdono non è una remissione unilaterale ma è un cammino che implica l’interesse e la collaborazione di entrambe le parti.

Colui che viene perdonato, infatti, per guadagnarsi nuovamente fiducia, dovrebbe mostrarsi pentito e offrirsi di riparare in qualche modo al suo comportamento.

La collaborazione dell’altro è assolutamente imprescindibile affinché il rapporto riprenda su basi più salde.

Il perdono verso te stesso

Mettiamo ora il caso che dopo un bel po’ di tempo e un grande lavoro su te stesso, alla fine ce l’abbia fatta: senti di aver finalmente perdonato la persona che ti ha fatto soffrire.

Ormai non hai più alcun desiderio di rivalsa nei suoi confronti e sei pronto a chiudere quel capitolo della tua vita.

Eppure, nonostante tutto, ti sembra di essere ancora incastrato in quella relazione e non riesci a voltare pagina aprendoti di nuovo agli altri come riuscivi a fare prima.

Prova a farti una domanda:

Hai perdonato te stesso?

Può sembrare banale ma spesso quello che ti tiene incastrato in un trauma vissuto è proprio il fatto di non aver perdonato te stesso per come sono andate le cose.

Magari non ti sei perdonato di aver permesso a una persona di ferirti, oppure non ti sei perdonato di non aver capito prima che ti stavi infilando in una situazione che ti avrebbe fatto stare male o di non aver realizzato subito che quella persona non era come sembrava.

Prova a riflettere un secondo. Il fatto di non accettare il passato ti fa stare meglio?

In realtà è vero il contrario: il perdono verso gli altri e ancora di più verso te stesso è l’unico mezzo per far guarire la tua ferita relazionale.

Il perdono, infatti, ti permette di accettare come sono andate le cose, lasciar andare definitivamente una persona e fare spazio di nuovo all’amore nella tua vita.

“Come può uno scoglio

Arginare il mare

Anche se non voglio

Torno già a volare”

“Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi” – Lucio Battisti

Sibilla Ceccarelli

La regola del 90/10 per affrontare i problemi

regola

La regola del 90/10 per affrontare i problemi: solo il 10% della nostra vita dipende dagli eventi mentre il 90% dipende da come reagiamo a ciò che ci accade.

Hai notato che alcune persone sono in grado di superare eventi dolorosi traendo dagli stessi nuova forza mentre altre vengono psicologicamente annientate da problemi simili?

Ti sei mai chiesto perché alcune persone si dicono infelici e si lamentano continuamente nonostante non abbiano problemi gravi mentre altre che sono alle prese con situazioni difficili sono propositive e propense al buonumore?

Vediamo la conseguenza logica che possiamo trarre da queste considerazioni.

Quello che è sotto i nostri occhi ogni giorno è che non sono tanto gli eventi o le relazioni a determinare la nostra vita, quanto il modo in cui ciascuno di noi si pone rispetto ad essi.

A parità di situazione, buona o cattiva che sia, ciascuno la interpreterà secondo i propri schemi e risponderà ad essa a modo suo. Ed è proprio cosa facciamo di ogni singola esperienza di vita a determinare la nostra realtà, nel bene e nel male.

Ad esempio, sono i pensieri che abbiamo rispetto a una prova da affrontare che determineranno le nostre emozioni.

Il nostro modo di vederla – come un problema oppure come un’opportunità – e il nostro conseguente stato emotivo potrà ostacolare oppure favorire la qualità della nostra performance.

“Le persone efficaci non sono orientate ai problemi; sono orientate alle opportunità. Esse nutrono le opportunità ed affamano i problemi.”

Stephen R. Covey

Considerazioni come queste hanno ispirato il noto uomo d’affari statunitense Stephen R. Covey, che ha elaborato la c.d. “regola del 90/10”.

Secondo questo principio, gli avvenimenti influiscono sulla nostra vita per il 10%, mentre il restante 90% è determinato dalla nostra reazione rispetto ad essi.

Per dirla in altre parole, la qualità della nostra vita dipende da noi per il 90%.

Ogni persona può rispondere a un medesimo stimolo in modo diverso ed è proprio questa risposta che determinerà il corso successivo delle cose.

Di fronte ad ogni problema, dal più banale al più significativo, esistono due tipi di approccio.

Si può concentrare l’attenzione sul problema, che fa parte di quel 10% che non è sotto il nostro controllo, oppure sulla nostra risposta al problema, che rappresenta il 90% ed è nelle nostre mani.

Logicamente, i risultati che discenderanno dai due atteggiamenti saranno molto diversi.

Nessuno potrebbe dare torto a coloro che impiegano tempo ed energie per ricordare a se stessi e al resto del mondo i motivi per i quali un problema è così grande e difficile da superare.

Se è vero che il problema esiste, non si può negare che costituisca un ostacolo lungo la strada. È altrettanto vero che sia necessario analizzarlo nei suoi aspetti per poterlo risolvere, ma se si lascia troppo spazio al problema, si finisce per diminuire le concrete possibilità di superarlo.

L’attenzione viene infatti distolta dalla ricerca attiva di una soluzioneper essere concentrata su quel 10% su cui non abbiamo potere.

L’approccio di chi invece concentra l’attenzione sulla ricerca della soluzione è di certo più produttivo, in quanto mantiene il focus su quel 90% che è nelle nostre mani.

“Tra lo stimolo e la risposta, c’è la libertà di scegliere.”

Stephen R. Covey

Cosa succede nel caso in cui il problema non abbia una soluzione vera e propria?

Ebbene, anche in questo caso l’atteggiamento mentale è determinante.

Ricordare che il 90% della nostra vita dipende dalla nostra reazione può aiutarci a vedere ogni difficoltà da un’altra prospettiva.

Esistono persone che sono riuscite a cogliere nuovi risvolti di una situazione negativa e a utilizzarla come carburante per avanzare nella loro crescita personale e superare i loro limiti.

Penso a persone straordinarie come Alex Zanardi Bebe Vio. Questi atleti sono riusciti a trasformare il fatto di aver subito una menomazione fisica in un’occasione di autosuperamento e crescita personale.

Naturalmente, il discorso è ancor più valido nel caso di problemi di portata oggettiva minore.

“Possiamo trovare una soluzione migliore di quella che ognuno di noi ha in mente. Sei disposto a cercare una Terza Alternativa alla quale nessuno di noi ha mai pensato prima?”
Stephen R. Covey

Se terrai a mente questa semplice regola, la prossima volta che ti troverai in una situazione che non è sotto il tuo controllo, sarai comunque in grado di influenzare il tuo contesto senza rimanere vittima di quel 10% su cui non hai potere.

 

Sibilla Ceccarelli – Coach

sibilla@coach2coach.it

Sentirsi intrappolati dai propri pensieri

pensieri

Sentirsi intrappolati dai propri pensieri. L’overthinking o ruminazione mentale può renderti ostaggio dei tuoi pensieri ed impedirti di agire.

Pensare o “ruminare”?

“Anche stavolta non ci riuscirò” , “non ce la posso fare” , “perché è successo proprio a me?”

Ti capita spesso di ripetere nella tua mente frasi del genere entrando in un vero e proprio loop?

Probabilmente sei nel tunnel dell’overthinking.

Come distinguere il normale flusso di pensieri dall’overthinking?

Nell’arco della giornata i pensieri ci accompagnano praticamente in ogni istante. Nella nostra mente si alternano valutazioni, ricordi, credenze creando un costante dialogo interiore. Secondo gli scienziati si compiono circa 60.000 pensieri al giorno. Fin qui niente di strano. Basta considerare che tutto quello che ci accade e ogni cosa o persona in cui ci imbattiamo è oggetto di analisi e valutazione. È proprio questa valutazione a determinare le nostre emozioni e le nostre azioni conseguenti. Se per esempio ci accade qualcosa che reputiamo spiacevole, proveremo paura o un’altra emozione negativa ed agiremo in modo da evitare che questa situazione si ripeta nella nostra vita. Se invece, per ipotesi, incontriamo per strada una persona che consideriamo simpatica, potremo provare una sensazione piacevole che magari ci farebbe decidere di organizzare presto un’uscita in sua compagnia.

La facoltà di pensare è senza dubbio la nostra più grande risorsa. Grazie al ragionamento riusciamo a risolvere i problemi ed a ottenere tutto ciò di cui abbiamo bisogno e che ci fa stare bene.

In alcuni casi, però, può capitare che i pensieri ci intrappolino in una spirale di negatività impedendoci di agire.

Le caratteristiche dell’overthinking.

Overthinking o ruminazione sono i termini utilizzati per indicare l’atto di pensare troppo. La ruminazione è un flusso di pensieri ripetitivi e invasivi accompagnato da emozioni quali ansia e angoscia.

La caratteristica che rende così nocivo questo eccesso di pensiero è la sua inconcludenza. Il lavorìo continuo di pensieri negativi, invece di aiutarci a fare chiarezza, ci allontana dalla soluzione dei problemi e ci fa perdere la concentrazione.

I segnali che ti dicono che sei nella spirale dell’overthinking

Sei vittima dell’eccesso di pensiero se:

i pensieri che ti passano per la testa sono sempre gli stessi e sono accompagnati sempre dalle stesse emozioni negative;

i pensieri non facilitano mai la risoluzione del problema ma, al contrario, non arrivano mai a una conclusione;

non riesci ad evitare che i pensieri ricorrenti invadano di continuo la tua mente.

Spesso, poi, l’overthinking può avere effetti negativi anche sul sonno.

Perché capita di entrare nel loop della ruminazione?

Quando una circostanza della nostra vita ci preoccupa, può accadere che l’ansia e l’angoscia prendano il sopravvento sui nostri pensieri. In questo caso si innesca un circolo vizioso di pensieri negativi che si rincorrono come su una ruota da criceto.

“Come faccio a risolvere questo problema?” ,“Tanto non ci riuscirò!” ,“Ne voglio uscire il prima possibile!”

Non tutte le circostanze che interessano la tua vita sono sotto il tuo pieno controllo.

Ad esempio, un figlio che rischia di essere bocciato a scuola oppure un problema di salute sono situazioni la cui risoluzione non dipende esclusivamente da te.

Eppure, a volte può capitare di illudersi di avere la soluzione completamente nelle proprie mani.

Pensare in modo ripetitivo, in questi casi, non porta da nessuna parte, anzi, fa perdere lucidità. La ruminazione ti paralizza impedendoti di fare tutto ciò che in tuo potere per favorire la soluzione del problema.

“Perché doveva succedere proprio a me?”

Rispetto ad eventi negativi che accadono nella vita non sempre è facile trovare un senso che trascenda l’accaduto stesso. In questi casi è molto facile cadere nel loop dei pensieri negativi.

“Tanto non sono in grado”, “cosa staranno pensando di me?”

La cattiva abitudine di mettere continuamente in dubbio le proprie capacità dovuta a una scarsa autostima può favorire l’innescarsi di un dialogo interiore fatto di pensieri negativi. Frasi del genere che ripeti in modo ossessivo come se fossero un mantra, ti fanno perdere la concentrazione e dunque ti allontanano dal raggiungimento dei tuoi obiettivi.

Come superare L’overthinking

Per interrompere il flusso di pensieri negativi occorre allenare la consapevolezza e la capacità di essere presenti nel qui e ora. A tal fine può essere utile esercitarsi ripetendo mentalmente tutte le azioni concrete che compi nella vita di tutti i giorni.

Se ad esempio stai svolgendo l’attività di pulire la tua casa, anziché permettere che i tuoi pensieri si allontanino dall’azione per tornare ad assillarti con le stesse tematiche, puoi provare a concentrarti su quello che stai facendo e su ogni sensazione che stai provando in quel preciso istante.

Anche le tecniche di meditazione e di mindfulness possono incrementare la capacità di concentrazione sul momento presente.

Per superare l’overthinking, in certi casi, può essere utile e importante recuperare energie attraverso attività ricreative. Un po’ di svago dal lavorìo continuo dei pensieri favorisce la creatività necessaria a trovare soluzioni e significati nuovi per affrontare qualunque tipo di problema.

Nel caso in cui il loop di pensieri negativi ti stia paralizzando dall’agire, puoi aiutarti elencando su un foglio tutte le azioni possibili per uscire da una determinata situazione con i relativi aspetti positivi e negativi. Mettere per iscritto le varie opzioni ti permetterà di  fare chiarezza nei tuoi pensieri e decidere le azioni da intraprendere.

Sibilla Ceccarelli